Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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I Tarocchini nel Settecento

In testi letterari, saggi e satire

 

Andrea Vitali, agosto 2012

 

Riportiamo in questo scritto alcuni passi di testi settecenteschi che menzionano i tarocchini bolognesi.

 
Francesco Algarotti (1712-1764) fu scrittore, saggista e raccoglitore di opere d’arte, incarnò appieno lo spirito illuminista. In quanto assertore delle teorie di Newton compose il libello scientifico Newtonianismo per le dame, mentre in campo letterario si distinse per le Lettere sulla Russia e Il Congresso di Citera, romanzo dedicato ai costumi amorosi e galanti dei paesi che aveva visitato. Scrisse inoltre saggi su svariati argomenti, fra i quali Sopra la PitturaSopra l’ArchitetturaSopra il Commercio Sopra l’Opera in musica. Nel Saggio sopra Orazio lodò i vantaggi di quel poeta dell’essere stato ambidestro motivo per il quale venne tacciato di omosessualità. L’abate Galiani nei riguardi dell’epitaffio che l’Algarotti volle sulla sua tomba Algarottus, sed non omnis lo definì più adatto alla commemorazione di un evirato cantore che di un uomo di cultura.

 

Dalla raccolta delle sue Opere, abbiamo scelto un passo in cui l’autore denuncia la sostanziale differenza che intercorreva nella serietà degli studi di anatomia fra gli studenti padovani e quelli bolognesi, poiché questi ultimi, oltre a essere più superbi, dedicavano maggiore attenzione agli svaghi e ai divertimenti, fra cui il giocare a tarocchini.

 

Lettere Varie - Parte Seconda

 

Al Signor Cavaliere Antonio Vallisnieri a Padova

 

Bologna 5. febbrajo 1760. 

 
“Un giovane uscito appena dal guscio letterato, appena professore, che non ha lettura, ardir contraddire vecchj lettori, che hanno un venti anni di cattedra sulle spallee sedere a scranna contro di loro? Le opinioni del Caldani furono combattute, e molto più ingiuriata la sua persona. E quello che a Padova sarebbe morto in uno o due caffè, o al più scoppiato in un distico, qui si diffuse per la città tutta, entrò nelle adunanze e ne' circoli, mise ogni cosa a rumore. E di ciò la ragione si è, che qui i letterati non sono solitarj come a Padova, ma si mischiano col bel mondo, vanno nelle villeggiature a' pranzivegliano, giocano a gallinella a tarocchino a pentolino. Cosicchè lo spirito del dottorismo agita la mole di Bologna, e si mescola per tutto il gran corpo della madre degli studj.

Cosicchè lo spirito del dottorismo agita la mole di Bologna, e si mescola per tutto il gran corpo della madre degli studj. Alcuni pochi difendevano il Caldani, ma sotto voce, chiamandosi prudenti quando eran timidi. E se alcuno alzava la voce, dicevasi schiamazzo dipartito, non linguaggio di verità. In mezzo a tali clamori si avvicinava il tempo, ch'egli far dovea la notomia nello studio. Il modo di farla qui è pur diverso da quello che si tiene a Padova. Ivi è tutta tranquilla, qui tumultuosa. Là ci si va per apprendere, qua per disputare” 1.


Di Ergasto Acrivio, pseudonimo che si dette il frate Cappuccino Francesco Maria da Bologna, furono pubblicate nel 1794 le sue Satirette Morali e Piacevoli in cui ironizzò sulla società del tempo in merito a diversi aspetti, come il comportamento assunto in teatro, nel gioco, nella conversazione, ecc. Dalla premessa Al Lettore veniamo informati che la metà di queste ‘Satirette’, e cioè le prime ventiquattro, furono date alle stampe dall’autore in occasione di un nobilissimo Matrimonio, che si celebrò di quei giorni in Bologna.

 

La Satira dedicata al Gioco e che riportiamo per intero, appartiene ai componimenti scritti a Bologna. In essa l’autore compie una comparazione fra gli Antichi - i cui giochi atletici della corsa e della lotta servivano a rinforzare oltre al fisico anche l’animo - e i contemporanei che si sedevano a un tavolo per giocare a carte, dannandosi l’anima col perdere soldi a faraone, bassetta e biribisso 2, consigliando tuttavia di giocare d’inverno a tarocchini davanti a un caldo camino, puntando al massimo non più di un bolognino.   

 

IL GIUOCO


Vuol sapersi qual sia il giuoco,
Che può usarsi onestamente,
Senz’offender molto o poco
La giustizia: e se la Gente
Sia colpevol, che un mestiere
Fa del starsi al tavoliere.


De gli antichi prima io leggo,
Che ignoravan dadi e carte:
E i lor giochi farsi veggo
Nella sola ginnich'arte,
Che a fatiche il corpo addestra
Nell' atletica Palestra.


Aristotile e Platone
Dannar'odo ne' lor scritti
Qual corrotta nazione
Que'di Lidia: perchè additti
A dei giochi molli e vani,
Che i lor corpi fean malsani,

 

E nel Libro delle Leggi
V'è un consulto del Senato,
In cui strettamente. leggi
Giocar soldo esser vietato
Fuorchè usando asta, o pilotta,
O armeggiando in corso, e in lotta.

 

Ma a dì nostri andò in disuso
E la lotta, e il disco, e il corso:
D'altri giochi venne l'uso,
E alle carte ànno ricorso
Specialmente gli Uomin molli,
E le Donne inerti e folli.

 

Or sol piace la primiera,
La bassetta, e il pentolino:
E si studia la maniera
Di passare a un Tavolino
L'ore vuote di negozio
Onde quasi fuggir l'ozio.

 

Egli è ver, che ha l'Uom bisogno
D' alcun lieto diversivo:
Nè ogni gioco io già rampogno
Come all'anima nocivo.
Giusto è a tutti il suo ristoro
Dallo studio, o dal lavoro.

 

Ma tal sempre si mantenga
Che poi serva all' Uom di sprone
Al travaglio: nè divenga
Giornaliera occupazione:
E non mai s'azzardi tanto,
Che a ruina guidi e a pianto.

 

Giustiniano in gioco accorda
Che sia ai ricchi un'asse meta;
E l'ass'è (Buddeo ricorda)
Assai piccola moneta:
E non vuol, che sia pagato
Chi di più abbia guadagnato.

 

E altra legge infami chiama
Que' che senza altro riguardo
(O sia Uom nobile, o sia Dama)
Li giochi usano d'azzardo:
E l'entrate, e i fondi stessi
Alla sorte voglion messi.

 

Dunque è chiaro, che giustizia
(Se gran somma azzardi) offendi,
E che gioco è di nequizia,
Troppo a lungo se lo estendi:
E quasi ài per professione
Biribisso, e Faraone.

 

D' Autor grave è sentimento
Che tra i molti Carcerati
Se ne trovi alcuno a stento,
Che gli enormi suoi peccati
Non ravvisi esser effetto
Del Soverchio al gioco affetto.

 

E pur troppo egli è palese,
Che dà il gioco assai frequente
Causa all'Uomo di contese:
E pel giuoco anche si sente,
Che la casa andò a soqquadro;
E che l'Uom divenne un Ladro.

 

Le bestemmie taccio e l'ira
Di chi al giuoco spesso perde.
Contro il ciel l'empio s'adira
Giocator, mentre disperde
Sulle carte il patrimonio;
E dà l'anima al Demonio.

 

Pur di tanti mali a fronte
Nella nostra Italia colta
Gli Uomin' ànno alle man pronte
Carte e dadi: e stiman stolta
Quella Gente, o scrupolosa,
Che ogni dì giuocar non osa.

 

E se il Principe divieta
De l'azzardo i giuochi indegni;
Non più il Popolo s' acchera:
Anzi allor crescon gl' impegni
Di violar la savia Legge,
Che un costume empio corregge.

 

Ma il mal vien, perchè oziosi
Son del tutto i Cittadini:
E a se stessi son nojosi,
Se non giocano i quattrin
Dove cieca la Fortuna
Molti pazzi insieme aduna.

 

Genti oneste, dalle carte
State lungi: e al vostro giuoco
Abbia industria la sua parte:
E l'inverno presso al fuoco
Fate al più d'un bolognino
La partita al tarocchino 3.

 

Giuseppe d’Ippolito Pozzi (1697-1752), medico e lettore di anatomia, fu poeta giocoso bolognese. Le sue Rime Piacevoli furono pubblicate postume nel 1764. Egli amava molto giocare a tarocchi e a tarocchini, come egli scrive nel suo ritratto (Sonetto I) e in altri passi delle Rime. Se l’idea che egli dà di sé nel ritratto e nel brano successivo da noi riportato è quello di uno scioperone, di un bagatello dedito esclusivamente al riposo e al divertimento (Senza pensiero alcuno me la passo, / E senza aver a spendere un bajocco, / E mangio, e bevo, e dormo, e vado a spasso), in realtà si tratta di una evidente finzione letteraria, su come avrebbe in realtà voluto trascorrere la sua esistenza. Infatti, la sua affermazione “fra Medici, e Vati ho qualche loco”, cioè che era in possesso di una qualche nomea fra i medici e i letterati, lo inserisce nel quotidiano vivere sociale e culturale del suo tempo, con tutte le occupazioni quotidiane che esse comportavano. Nella quiete e nel riposo di una sua villa in campagna egli propone il gioco dei tarocchini a coloro che avessero avuto l’intenzione di parlar Latino, vietato in quello stato di beata pigrizia. Inoltre, scrive l’autore, che costoro non avrebbero perso alcun denaro data l’abitudine invalsa di non pagare mai le proprie perdite, dato il celebre motto Litterae non dant panem (nostra considerazione) a significare che gli studi classici non portano mai ricchezza.

 

SONETTO I


Ritratto dell’Autore 


Son lungo, e magro; son franco, ed ardito,
Ed ho due anni più di trentasei;
Sono di membra in proporzion guernito,
Nè più bel, nè più brutto esser vorrei.


Non ho ricchezze, e pur non son fallito;
Ho due Figli, e fra due mesi sei;
Di tre Mogli a quest' ora io fui Marito:
Volete altro saper dei fatti miei?


Amo de' Scacchi, è de' Tarocchi il Giuoco;
Son iracondo, e frettoloso a un tratto,
E fra Medici, e Vati ho qualche loco.


Mi convien far da savio, e pur son matto,
Mangio ben, bevo meglio, e studio poco:
Quest'è la vita mia, quest'è il Ritratto 4.

 

Capitolo VIII

 

O Don Filippo mio da che son nato
    Felice vita più, nè più tranquilla
    Di quella ch'oggi provo, ho mai provato.
Su 'l monte stommi in una fresca villa,
    Ove in tre dì son diventato grasso
    Come Dicembre suole esser l'Anguilla;
Senza pensiero alcuno me la passo,
    E senza aver a spendere un bajocco ,
    E mangio, e bevo, e dormo, e vado a spasso:
Si che da ver poltrone, e da buon scrocco
    Affè lo stato mio non cangere
    Con quel del Re d'Egitto, e di Marocco.
Gli anni di vita mia son trentasei ,
    E più che volentieri in cotal loco
    Seimila per lo men ne camperei.
Né voi crediate, che il dica per gioco,
    Fate che viva, e poi se la parola
    Non vi mantengo ditemi un dappoco.
Qui non si studia, qui non si fa scuola,
    E se tentasse alcun parlar Latino
    Saria tosto appiccato per la gola.
Gli è concesso a giuocare a Tarocchino
    Con una assai lodevol costumanza,
    Che il perditor nè men paga un quattrino.
Li promotori di sì fatta usanza
    Fur Manfredi, e Zanotti, e a non pagare
    Hanno il bel dono di perseveranza 5.
ecc.

 

Di Benvenuto Robbio conte di San Raffaele (1735-1794), accanito nemico del razionalismo contro cui compose il trattato Della Falsa filosofia (1777), l’opera più importante rimane Il Secolo d’Augusto (1769), in cui preannunciò un imminente risorgimento per l’Italia. Nel componimento Della Condotta de’ Letterati, dove egli riassunse e amplificò il corretto modus vivendi di qualsiasi uomo di lettere, citò il gioco dei tarocchini laddove si appuntò contro coloro che studiavano più per curiosità che per un reale interesse di cultura, dediti piuttosto a prendere svago nel giocare a carte o ai dadi che a trarre vantaggio dalla conoscenza.

 

Capo Ottavo - Quali intenzioni disdicono all’uom di studio


"Chiunque nello studio ad altro non bada se non se ad appagare la propria curiosità, è mal avvisato, in quanto ei piglia la scienza non come stromento a poter giovare agli altri e a se stesso, ma come un semplice passatempo. Ei si trattiene appunto fra i libri, come gli oziosi tra il tarocchino e i dadi, o i fanciulli colla trottola e col palèo. La curiosità è un naturale appetito, il di cui appagamento quanto è lodevole, ove a buon termine s'indirizzi, altrettanto è frivolo e misero, qualor non abbiasi altro disegno, che di passar le ore come che sia, di soddisfare il proprio capriccio, di cercar sempre il dilettevole, trascurando affatto ciò, che farebbe vantaggioso" 6.


Giancarlo Passeroni
 (1713-1803), nizzardo, importante poeta del sec. XVIII, divenne celebre per il poema in tre parti Il Cicerone, composto prima del 1743. Col pretesto di comporre una biografia del celebre letterato romano, l’autore coglie l’occasione per fustigare i costumi della sua epoca a cui indirizza ironici e satirici commenti. Riguardo il gioco delle carte e in particolare del tarocchino, l’accanimento dell’autore risulta alquanto immediato, dando l’impressione di una ritorsione poetica dettata da fatti personali.

 

Canto Decimo

 

Ottava 41

 

Benche nel gioco fosse fortunata,

Giocava tuttavia molto di rado:

Alla gente oziosa, e sfaccendata

Elvia lasciava il gioco di buon grado:

La qual non crede d'essere occupata,

Se non quando ha le carte in mano, o 'l dado:

E gioca tutto 'l dì per passar l'ozio,

Trattando 'l gioco, come un gran negozio.

 

Ottava 42

 

Un gioco onesto, e lecito conserva,

L'uomo allegro, ed il gioco io non rinnego;

Il giocar troppo poi l'animo snerva:

Giocate, Elvia dicea, ch'io non vel niego,

Ma giocate in maniera, che vi serva

Il gioco di sollievo, e non d'impiego:

Per dirvela tal, qual m'è stata detta,

Elvia non giocò mai alla bassetta.

 

Ottava 43

 

Questo e un gioco, dicea, da disperato,

Da gente, che andar vuol presto in malora:

E questo è segno, ch'era già inventato

Quel maledetto gioco infin d'allora:

Alla bassetta più d'un s' e spiantato,

E spianteransi molti, e molti ancora:

Per' non arrischiar mai troppi quattrini,

Elvia giocava solo a tarocchini.

 

Ottava 44

 

Elvia in oltre giocò sempre di poco,

Come dovrebbe far sempre il bel sesso:

E non voleva per cagion del gioco

Nè vender, nè impegnar, ch’è poi lo stesso,

Come s'usava allora in più d'un loco,

E come forse s'usa ancor adesso,

L'orologio, la scattola, e talvolta  

Quel, ch'io lascio pensare a chi m'ascolta 7.

 

Canto Decimo Terzo

 

Ottava 113

 

E spero di vedere in que' contorni

Un caro, e lieto amico mio, con cui

Vo' trattenermi nove, o dieci giorni,

Per non dir per esempio un mese, o dui;

E pria, che sloggi, ed a Milano io torni,

Io spero di rifarmi a danni sui,

Rifarommi, vi dico, de' baiocchi,

Che con lui perdo all'ombre, ed a' tarocchi.


Ottava 114


Ma se perdo, almen perdo con piacere,

O per dir meglio, gioco volentieri:

E mi diverto quelle poche sere,

Che mi ritrovo in casa Balestrieri:

Dove persone son non troppo austere,

E donde son banditi i rei pensieri:

E dove il riso, e i motti onesti spesso

Il condimento son del gioco stesso 8.

 

Canto Trentesimo Secondo

 

Ottava 30

 

Questi (1) era un uomo dotto, un uom saputo,

Che faceva il mestier dell'avvocato,

Ed a mente sapeva ogni statuto,

Ed in Bologna s’ era addottorato,

Dove Marco avea visto, e conosciuto,

E una sorella d’ Elvia avea sposato,

Che a far ben bene i computi venia

Di Cicerone appunto ad esser zia.

 

Ottava 31

Avea quella sua zia due figli maschi,

I quai di Cicerone eran cugini,

E non aveano atteso a vorar fiaschi,

Nè a giocare a primiera, o a tarocchini,

Vizio, in cui par, che d’ ordinario caschi

La pazza gioventù, quando ha quattrini:

Sebbene il padre avea di molti scudi,

Con gran fervore attesero agli studi. 9

 
(1) Questi = un certo Aculeone

Canto Vigesimo Sesto

 

Ottava 45

 

Parlate di parrucche, e di vestiti,

Di servidori, di cavalli, e cocchi;

E di modi, e di veglie, e di conviti:

Tenete altri discorsi ancor più sciocchi:

Vertono per lo più vostri quesiti

Sul gioco del tresette, o de’ tarocchi:

Raccontate le vostre debolezze;

E lodate i piaceri, e le ricchezze 10.

 

Canto Trentesimo Secondo

 

Ottava 25

 

Tullio siegue frattanto la sua strada,

Rivolgendo talvolta indietro gli occhi:

Già cessa il duolo, e par che a nozze vada.

Che fa, che il pianto è infin cosa da sciocchi:

E giura per la sua fedele spada,

Di diventare il quattro de’ tarocchi; (1)

Or chi va a Roma per lo più s’incapa

Di diventare o Cardinale, o Papa. 11. 12.

 

(1)  quattro de’ tarocchi = Il Papa.

 

Nel Canto Vigesimo Primo l’autore esamina sé stesso nel suo valore di poeta, increscioso di non essere all’altezza del Bembo, del Lasca e dei tanti altri autori citati dalla Crusca, così che sovente s’adira con sé stesso e con la rima espressa.

 

 Ottava 14

 

La rima fa più d'una volta ch' i’ esca

Del seminato, il che assai poi m' incresce:

La rima, che dovrebbe esser fantesca,

Di me s' indonna, e spesso le riesce

Di comandarmi, e per lo più m'adesca

Co’ suoi vezzi, ch’io sono un novo pesce,

E fa, che in varie repliche poi casco,

E contro lei, e contro me m' irasco.

 

Sta di fatto che il non riuscire a rimare come egli avrebbe voluto, lo faceva talmente innervosire, che fra sé stesso taroccava, cioè si arrabbiava e credendo di imbroccare una bella rima in realtà falliva miseramente.

 

Ottava 15

 

Quand’anch’io penso d’allacciarmi il lucco, (1)

E usar rime difficili mi picco,

Mi fa parer la rima un uom di stucco,

E mi dispererei, s' io fossi ricco,

Perocchè un ricco, ancorchè mamalucco,

Crede poter far tutto: io non mi ficco

Tal cosa in testa: ma tra me tarocco,

E credendo imbroccare, io non imbrocco 13.

 

(1) allacciarsi il lucco = vestirsi con l’abito dei dotti. Metafora per “Sentirsi all’altezza di comporre dotte rime”.

 

Note

 
1. Francesco Algarotti, Opere. Edizione novissima. Tomo X. Venezia, Carlo Palese, 1794, pp. 56-57.

2. La perdita di denaro al gioco era considerata deplorevole e condannata come peccato dalla Chiesa. Motivo per cui, anche per i giochi considerati leciti, si ammoniva di giocare pochi denari.

3. Ergasto Acrivio, Satirette morali e piacevoli. Foligno, Gio. Tomassini Stamp. Vescov., 1794, pp. 23 - 27.

4. Giuseppe d’Ippolito Pozzi, Rime piacevoli. Londra, Domenico Pompeati Librajo, e Stampatore Veneto, 1790, p. 3.

5. Ivi, pp. 58 -59.

6. Benvenuto Robbio conte di San Raffaele, Della condotta de’ letterati. Torino, Stamperia Fontana, 1780, p. 58.

7. Giancarlo Passeroni, Il Cicerone. Tomo I. Milano, Antonio Agnelli, 1774, p. 228.

8. Ivi, p. 332.

9. Ivi. Tomo II. Bassano, a spese Remondini di Venezia, 1775, p. 397.

10. Ivi, p. 243.

11. Ivi, p. 396.

12. Passeroni, benché pensasse che la papessa Giovanna non fosse mai esistita, ritenne che fosse stata effigiata da poltroni nelle carte dei tarocchi. Si veda La Papessa.

13. G. Passeroni, Il Cicerone cit. Tomo IIp. 88.

 

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