Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

Gente che tarocca

L'imprecare e l'inveire in letteratura

 

Andrea Vitali, maggio 2012

 

 

Niccolò Forteguerri - Giovan Batista Fagiuoli - Giovan Santi Saccenti - Lorenzo Lippi - Gaetano Guttierez del Hoyo - Giancarlo Passeroni - Giovanni Meli - Giuseppe Gazzino Vincenzo Monti - Nicola Limosino - Giovanni Gherardo De Róssi - Francesco Albergati Capacelli - Domenico Luigi Batacchi - Antonio d’Este - Domenico Ballestrieri - Andrea Archetti - Andrea Leone Tottola   


Concludiamo con questo articolo la disamina sul verbo ‘taroccare’ attraverso la coniugazione della terza persona all’indicativo presente, cioè tarocca, di cui riportiamo alcuni scritti tratti dalla storia letteraria italiana. Poiché la vita e le opere di molti fra gli autori qui presentati sono state già illustrate in altri nostri interventi, per il loro approfondimento rimandiamo alla lettura dei relativi saggi. In questa sede ci limiteremo pertanto a illustrare sommariamente il profilo degli autori non altrove citati. 

"Carteròmaco" è la forma grecizzante del cognome Forteguerri, assunta dall'umanista Scipione e poi dal suo discendente Niccolò (1674-1735), autore del Ricciardetto 1. In tre ottave dell’opera l’autore usa il verbo taroccare:

 

Il Ricciardetto

 

Canto Secondo

 
Ottava 4


Dopo una buona navigazione,
   Ecco tempesta orribile, e crudele,
   Che i nocchier mette in tal confusione,
   Che senza alberi omai, e senza vele
   Correvan tutti a certa perdizione.
   Chi prega Cristo, chi l'angel Gabriele,
   Che cessar faccia l'impeto de' venti,
   E chi tarocca, e bestemmia fra denti. 2

 

Canto Terzo

 

Ottava 74

 

E grida: Aprir non voglio a gente armata:

   Risposer quei di fuora: Con le nocca

   Questa porta t'avrem presto sfasciata.

   Rinaldo, ch’ode il Frate, che tarocca,

   Ogn' ingiuria da lui presto scordata:

   Apri pur (disse), a questa gente sciocca;

   Che assai ben presto li farem pentire

   Di tanta lor baldanza e tanto ardire. 3

 

Canto Quarto

 

Ottava 81


Ma mentre ch' ei fatica, e che tarocca;
   Ecco che piomba ancor sopra di lui
   Un'altra rete da quell'altra rocca,
   E restano prigioni tutti dui.
   Son tratti in alto, e per un'ampia bocca
   Che ogni castello apre ne' fianchi sui,
   Son messi dentro, e son cacciati a fondo,
   Privi del lume, che fa bello il mondo. 4


Di Giovan Batista Fagiuoli (1660-1742) 5 riportiamo un passo tratto dalla commedia L’Astuto Balordo: 

 

Atto Primo - Scena VII

 
Menica (la balia) sola

 
“Sputa il fiato mai più vecchio usurajo, cane assassino! O mi sa pur male di quella figliuola, trattata così vituperosamente senz' averci nè colpa né peccato! La poverina è innamorata di quel Sig. Orazio, e io la compatisco; eran quasi rilevati insieme, ed era un partito, che non si poteva far più; un bel giovane; uh gli era bello! piaceva infin' a me, che non ho mai avuto il gusto guasto. Era solo, ricco; lei pure sola. Tant' è, non c' è che dire, come s' ha da far con uomini bestie, l'è finita. Del Sig. Orazio, in verità, se n' è saputo sempre nuove, perchè sempre il buon giovane, in questo tempo, ha carteggiato colla Sig. Isabella: inviava le lettere sotto coperta al Sig. Don Fidenzio, e questi le dava a Ciapo, che di notte me le dava dalla finestra con una canna: ed io per la medesima davo a lui le risposte: e il maestro ricevute che le aveva da Ciapo, le mandava a Pisa ad Orazio, garbatamente e bene: e questo triocco, e questo andirivieni credo, che sia stato quello, che abbia mantenuto in vita questa ragazza, per le speranze, che il Sig. Orazio le dava di esser suo sposo. Adesso, che è morto suo padre, che l'impediva, chi sa che non pigli qualche risoluzione! E' vero, che il vecchio dice di non volergliene dare, benchè la pigliasse in dono; ma chi sa, finchè e' c' è fiato c' è speranza. Mi dà ben un po' di sospetto, che da molti giorni in quà non ci son state lettere, ne risposte: e Isabella che non aveva altra consolazione, tarocca a una foggia, che la pare un Lanzo, quando sente, che il vino è rincarato. Vo' ire un po' sul terrazzo a scaldarmi al Sole, intanto mi proverò aconsolarla un poco da quella finestra inferriata, che risponde nella sua camera. In cucina non occorre, ch' io ci vadia; perchè alle mani di questo vecchio, l'è diventata l'archivio” 6.

 

Sempre Fagiuoli, nei versi sotto riportati scritti in occasione della ritrovata salute della Principessa di Toscana Violante Beatrice, si rammarica per il fatto che le persone dappoco, quasi fosse un destino, non si ammalavano mai, senza soffrire neppure un mal di denti, al contrario dei grandi uomini che per questo erano costretti a taroccare, cioè ad arrabbiarsi.

 

 Or che Voi foste inferma un grave affanno

   Provai, e fra me dissi: S'Ella ha male,

   Tante prerogative or languiranno,

   Ma nò: benchè viepiù sia resa frale

Da fabbre ardente questa umana spoglia,

   Stà sempre saldo un animo reale.

   Tal pensier tuttavia l'acerba doglia,

   Ch' io provava per Voi, non mitigava,

Di vedervi guarita avend' io voglia.

   Che s' ammalasser io desiderava

   Tant'altri, che non son buoni a niente,

   ln cambio vostro: e niun se n' ammalava.

Anzi a posta il destino a questa gente,

   Per far che un galantuom da ver tarocchi,

   Fa sì, che non le dolga nè anco un dente 7.


Fra le rime di Giovan Santi Saccenti (1687-1749) da Cerreto Guidi 8 un Capitolo tratta di una lettera in versi scritta alla moglie in cui l’autore, divenuto segretario del Podestà di Barberino del Mugello, si lamenta per dover sempre aspettare i comodi del suo padrone per pranzare, mentre la sua pancia borbotta, strepita e tarocca per la fame.


CAPITOLO IV


Essendo in Ufizio a Barberino di Mugello col Sig. Modesto N. di Prato Gentiluomo Fiorentino, scrìve alla Moglie.


Carissima Consorte: in questa mia,
   Che sarà forse l'ultima, riscrivo
   Un caso atroce, una novella ria.
Sappiate, che per poco io sarò vivo,
   Perchè il mio Podestà mi dà da bere
   Un certo vin mordace, e corrosivo.
Onde la notte, e il dì mi par d'avere
   Rinchiuso nelle viscere un Mastino,
   Che rode, e non mi lascia ben avere.
Sia maladetto il dì, che a Barberino
   Venni a servir questo Signor Modesto
   Podestà Gentiluomo Fiorentino.
S'io n'esco vivo, giuro, e mi protesto
   D' andar piuttosto Schiavo in Barberìa,
   Che servir Gentiluomo come questo.
Qui suoni quanto vuol l' Avemarìa
   Non si discorre mai di desinare,
   Finchè fame non ha sua Signorìa.
Perchè dice ch'è avvezzo a passeggiare,
   Suonato il mezzo dì quasi un par d' ore,
   Sotto Marcato nuovo, e chiacchierare.
Quindi è, che non vuol mai questo Signore
   Sin' al tocco di Vespro entrare a mensa:
   Se questa è grossa, quest' altra èmaggiore,
Dall' uscio di cucina alla dispensa
   Passeggia il Podesta Mercato nuovo,
   Tarocca il Cavalier, passeggia, e pensa.
S'ei discorre, io non nego, e non approvo;
   Muojo di fame, ed ei bada a discorrere.
   Pensate Moglie mia, che pena io provo.
Quando sarebbe tempo di soccorrere
   Al ventre, che arrovella d'appetito,
   Per dar gusto al Padron mi tocca a correre.
Mi fa un discorso, che l'avrò sentito
   Da lui trecento volte, e mi trattiene
   Tra fame, sonno, e noja in infinito.
E benchè io non risponda mal, ne bene ,
   Ei tira innanzi il suo ragionamento
   Senza aver discrizion per chi si sviene.
Poi si va a pranzo; e qui non mi lamento
   D'una modesta, e parca refezione,
   Nè pretendo più largo trattamento. 9

 

Dal Malmantile Racquistato di Perlone Zipoli (Lorenzo Lippi) (1606-1665) 10 riportiamo due ottave assai gustose dato l’argomento vino.

 

Settimo Cantare

 
XV


Non so se tu minchioni la mattea:
   Lasciami ber, ch' io ho la bocca asciutta:
   Che diavol pensi tu poi, ch'io ne bea?
   Io poppo poppo, ma il cannel non butta.
   Risponde Meo: Po far la nostra Dea!
   Che s'ei buttasse, la beresti tutta:
   O! discrezione, s' e' cen'è minuzzolo.
   Paride beve, e poi gli dà lo spruzzolo.

XVI


Non vi so dir, se Meo allor tarocca;
   Ma l'altro, che del vin fu sempre ghiotto,
   Di nuovo appicca al suo cannel la bocca,
   E lascia brontolare, e tira sotto;
   Ma tanto esclama, prega, e dagli, e tocca,
   Ch' ei lascia al fin di ber, già mezzo cotto;
   Dicendo, ch'ei non vuol che il vin lo cuoca,
   Ma che chi lo trovò non era un'oca. 11

 

Del Canonico Gaetano Guttierez del Hoyo (sec. XVIII), membro di una delle tante Accademie Italiane con il soprannome di Trasformato, riportiamo dai componimenti poetici un Capitolo dedicato ad alcune monache milanesi, dove egli ironizza sul prendere moglie e sul carattere di queste:

 

Alle Nobili sorelle Moriggi Monache Milanesi

 

Capitolo

 

[...]

Per questo i’ l’ho per soma un po’ gravosa

      Beccarsi moglie, perché un dì voluta,

      Gnaffe, è voluta per sempre, la Sposa:

 

E ha bello esser peggior de la cicuta,

      Che bersela bisogna al Cristianaccio.

      Finche morte pietosa non lo ajuta.

 

Quanti però il parletico in un braccio

      Si torrebbono a patto, o il dilombato,

      E le calze cavar da questo impaccio!

 

Giacchè per mala sorte è lor toccato

      D’aggiogarsi a una Donna, che tarocca

      Sempre con gran dote, e il gran casato:

 

O che fa la saccente, e sì l’è sciocca,

      O sempre è rincagnata, e in tutto presta

      A porre il becco, e sempre il falso imbrocca:

 

O è brutta, lercia, e ha il fiato che t’appesta;

      O è bella, e allor è dubbia mercanzia,

      Che al buon marito fa doler la testa.

 

Ma chi vi è dentro nel gagno, vi stia,

      O al fistol raccomandi la mogliere,

      Ch’io non saprei che farvi, e tocchiam via 12.

 

Da Il Cicerone di Giancarlo Passeroni (1713-1803) 13 riportiamo alcune ottave, in una delle quali il senato romano tarocca:


Canto Settimo


II 


    E reggere lo sa con tal destrezza, (1)

Che non mormora alcuno, nè tarocca:

Sebbene a lamentarsi è Roma avvezza.

Pur favella di lui col mele in bocca:

La vigilanza sua, la sua saviezza

Esalta Roma, e di sentir gli tocca

Darsi titoli illustri, alteri, egregi

Ugnali a que' ch' appena or dansi a' regi. 13

 

(1) L’autore parla di Cicerone che regge il governo 

 

 LXX  

 

   All'udire una legge tanto strania

Tutta Roma si fe' le maraviglie:

Il senato tarocca, grida e smania,

La camera la dà nelle stoviglie.

Perchè 'I grasso terren della Campania

A diecimila povere famiglie

Dividere si dee, che al regio erario

Rende ugni anno un danar non ordinario. 14

 

Canto Vigesimo

 

XXI

 

     Prendermi questo impaccio a me non tocca,

Perocchè poco v’è da guadagnare:

Ed io non ho da regolar la bocca

Delle donne, che vogliono parlare:

E già più d’una contro me tarocca,

Sapendo, che s’io vogliola obbligare

A parlar bene, e ragionevolmente,

Vengo ad obbligarla a non dir mai niente. 15

 

Giovanni Meli (Palermo 1740-1815) dopo essersi laureato in medicina si diede “a coltivare le arti del bello e dell’immaginazione” pubblicando a soli diciassette anni il poemetto bernesco La Fata Galante in otto canti e in ottave rime siciliane, per la qual cosa “venne riguardato un prodigio”. Trasferitosi a Cinesi, piccolo villaggio vicino a Palermo, assieme all’esercizio dell’arte salutare continuò a coltivare le Muse  cimentandosi in ogni tipologia di versi. 

 

Da una sua Favola riportiamo la versione in italiano curata da Giuseppe Gazzino, assieme alla sestina in lingua originale ove ‘si tarocca’:

 

Favole di Giovanni Meli

 

XXV

 

L’Asino-Uomo e l’Uomo Asino (Titolo Originale Lo Sceccu Omo, e l’Omu Sceccu)


   Or volle il caso che dovendo fare
Lungo viaggio l'asino-padrone
Sul dosso all'asin-servo a caricare
Si desse salmerìe d'ogni ragione,
Senza ch'egli pensier punto si dia
Che al peso enorme regger non potrìa.

 

   L'abbattuto somier con grande stento,
Sudando e trambasciando, un miglio corse;
All'altro miglio il piè fassi più lento,
Movesi appena, e di sua vita è in forse:
Gli è intoppo ogni pietruzza; e l'altro, il dosso
Col randello gli pesta a più non posso.

 

   Ma giunto ad un pendio lena gli manca,                
Incespica, stramazza, e ad una rôcca                      
Spaccasi il cranio, e si sconquassa un'anca;          
Dà in ismanie il padron, freme, tarocca;                
Ma ond'ei riviva il taroccar non giova,                  
E a terra intanto il carico si trova.                           

 

Testo originale in Siciliano della sestina precedente:

 

     Finalmenti vicino a ‘na lavanca
Truppica, cadi, e supra di ‘na rocca
S’apri la testa, si stuppedda un’anca;
Lu patruni pri rabbia tarocca;
Ma lu su taruccari non apporta
Vita a lu Scecco, né la robba porta.

 

   L'unico spedïento che gli resta
È ch'egli il peso addossisi di quello;
E parte sulle reni, e parte in testa
Adattarselo allor così bel bello,
Locchè tanto più grave a lui parea
Che l'abito al portar perduto avea.

 

   Stenta, suda, s'affanna, e spinge forte;
Cade, sorge, ricade a volta a volta,
Qual era un tempo, ad onta della sorte
Asino ritornato un'altra volta;
Che tale essendo, colla salma addosso
Fiaccasi il collo alfine entro ad un fosso 16.

 

Sempre di Giovanni Meli, proponiamo una favola morale (Favuli Murali) in lingua, riguardante un topo e un riccio, a cui facciamo seguire la traduzione in italiano:

 

V

 

Lu Sorci, e lu Rizzo

 

    Facia friddu, ed un Surci ‘ingriddutizzu

Mentri stà ‘ntra la tana ‘ngrafucchiatu,

Senti a la porta lamentari un Rizzu

Che cci dumanna allogggiu umiliatu:

    Jeu, dici, ‘un vogghiu lettu, nè capizzu;

Mi cuntentu di un angulu, o di un latu,

O mi mettu a li pedi ‘mpizzu, ‘mpizzu,

Basta che sia da l’aria riparatu.

    Lo Surci era bon cori, e spissu tocca

A li bon cori aghiuttiri cotugna;

Su assai l’ingrati, chi scuva la ciocca.

    Trasi llu Rizzu e tantu si cc’incugna,

Chi pri li spini lu Surci tarocca,

E disperatu de la tana scugna:

    E dicchiù lu rampugna

L’usurpaturi, e jia gridanno ancora;

Cui punciri si senti nescia fora. 17

 

Traduzione in Italiano


   Faceva freddo, e un topo intirizzito,
mentre dentro la tana sta rannicchiato,
sente alla porta lamentarsi un riccio
che, umiliato, chiede alloggio:
   Io, dice, non voglio un letto, nè un capezzale,
mi accontento di un angolo, o di lato (di parete),
o mi metto in piedi ai margini (della casa),
basta che che io possa ripararmi dall'aria (fredda).
   Il topo era di buon cuore e spesso tocca
a coloro che sono di buon cuore inghiottire mele cotogne  (1)
sono tanti gli ingrati, che la chioccia cova.
   Entra il riccio e talmente gli si attacca (al topo)
che a causa delle spine il topo impreca
e disperato dalla tana è scacciato:
   E per di più l'usurpatore lo rimprovera,
e andava gridando sempre di più:
"chi si sente pungere, esca fuori".

(1) le mele cotogne sono durissime da masticare e per di più amare.
 

Infine, sempre del Meli, un passo tratto dal suo Don Chisciotti con relativa traduzione:

 

D. Chisciotti e Sanciù Panza

 

49

 

    Torna e ritorna a tentari la sorti

Lu magu, ma travau ‘na vera rocca,

Un scogghiu ed un macigno accusì forti,

Che prima di piegarsi si stocca;

Lassa li preghi, e ad aspri vuci, e forti

Ora fremi e amminazza, ora tarocca,

Tantu chi all’ira, e a lu smaniari

Pareva un crudo e timpistuso mari 18.


Traduzione in italiano


   Torna e ritorna a tentare la sorte
il mago, ma trovò (davanti a sè) una vera roccia,
uno scoglio e un macigno così forti
che prima di piegarsi si rompe;
lascia le preghiere, e con urla amare e forti
ora freme e minaccia, ora impreca,
tanto che per l'ira e lo smaniare
sembrava un crudele e tempestoso mare.

Del celebre letterato Vincenzo Monti (1754-1828) riportiamo la versione poetica del componimento Della Pulcella di Orleans del Signor di Voltaire (Avanzi di Traduzione), così come riportata dal Carducci in un volume da lui curato sulle versioni poetiche dell’autore, che riguardavano, fra gli altri, Persio, Omero, Lemercier, ecc.

 

La Pulcella d’Orleans

 

Frammento del Canto Settimo

 

   Altri muore, altri langue, ed altri piglia
La fuga orando, e per qual via non mira.
Seconda il fier somaro a meraviglia
Del Paladino l'ardimento e l'ira:
In mezzo alla crudel strage vermiglia
Vola, morde, spetezza e calci tira,
E col piè vincitor calpesta quella
D'atterriti facchini atra procella.

    
   Sacrogorgon cogli altri anch'ei si mesce
E a calata visiera alto tarocca;
Ma poi rincula, chè morir gl'incresce.
Dunoè lo raggiunge e gliel'accocca,
Nel pube gliel' accocca: il ferro gli esce
Sanguinoso pel cul: l'empio trabocca:
E il popolazzo, che cader l'ha scorto,
Grida: Lodato Iddio, quel birbo è morto! 19

 

Restando sempre sul Don Chisciotte, riportiamo un brano dell’opera recata in versi italiani da Nicola Limosino (1755-1815). Dedicatosi dapprima al commercio, grazie alle letture del Berni e del Tassoni, si diede alle belle lettere divenendo Accademico Immobile e uno dei Pastori della Dora nelle cui ‘Veglie’ (volumi) si trovano alcune sue poesie. Il suo lavoro letterario venne raccolto nel volume intitolato Poesie di Nicola Limosino 20 contenente Sette Canti del Don Chisciotte de la Mancia in ottava rima, alcune poesie sacre, molte anacreontiche di argomento vario, la traduzione di un Idillio di Gessner e alcuni componimenti berneschi. Tommaso Vallauri così scrisse di lui: “Le poesie del Limosino spirano in ogni loro parte affettuosa gentilezza e festiva giovialità. Egli seppe vestire di linguaggio poetico anche gli oggetti più prosastici, e adattar loro il verso e la locuzione. Nel genere berniesco spezialmente egli si mostra sovrano maestro, valendosi di opportuni motti e delle grazie proprie della lingua, senza mai cadere nella scurrilità, talché noi avvisiamo potersi il Limosino chiamare meritamente il Berni piemontese” 21.

 

Canto II

 

   Lo vede Don Chisciotte, e, olà, chi sei? (1)
Grida con voce minacciosa e forte;
Un guerriero dappoco esser‘ tu dei,
Che ad un par mio si grave ingiura apporte.
Or or vedrai chi sono: ai torti miei
Troppo lieve compenso è la tua morte.
Piglia del campo e vieni al paragone,
Se hai cor di pugnar meco, o mascalzone.
   Chi sa costui, che diavolo tarocca!
Ei debbe aver cioncato allegramente:
Bestemmiando diceva a mezza bocca
Il condottier della mulesca gente:
Poi, rinforzando il tuono, a mille scocca
Le imprecazioni al Cavalier valente:
Questi gli è sopra, e menagli una botta,
Che lo stramazza colla testa rotta. 22

 

(1) Don Chisciotte incontra un mulattiere

 

Giovanni Gherardo De Róssi (Roma1754 - ivi 1827), oltre che Ministro delle

Finanze sotto la Repubblica Romana, fu commediografo e poeta. Scrisse Del moderno teatro comico e del suo restauratore CGoldoni (1794); Scherzi pittorici e poetici (1795); la Vita di Angelica Kauffmann (1810), oltre ad apologhi ed epigrammi. Fra il 1790 e il 1798 pubblicò sedici commedie ricche e vivaci per la pungente satira, fra le quali risalta Il cortigiano onesto di ispirazione goldoniana,

 

Le Sorelle Rivali - Atto Primo - Scena IX.

 
Contessa Clorinda

L’alfiere Ardenti, fratello di Clorinda

 

Contessa. Oh!  Era ben altr' uomo il medico di questa casa, quando ne partii, costui... (vede l’Alfiere) Mio Fratello, dove andate voi?

Alfiere. Fuori di casa, perchè non ne posso più. In una camera piangono i vostri figli ammalati, nell'altra bisbigliano i servitori confusi, di qua tarocca Asdrubale col medico, di là mia sorella dà nelle maggiori smanie. Concludiamo. Il nostro ritorno ha messo la confusione nella famiglia. 23

 

Il bolognese Francesco Albergati Capacelli (1728-1804), marchese per nascita, senatore e gonfaloniere di giustizia nella propria città, fin da giovane si sentì attratto dal teatro al quale dedicò praticamente tutta la sua vita proteggendo nel contempo autori e attori. Intrattenne rapporti amichevoli con l’Alfieri, Voltaire e Goldoni. Sposatosi per ben tre volte, fece scalpore in tutta Italia l’accusa a lui rivolta di avere ucciso la seconda moglie, colpa dalla quale venne pienamente scagionato. Così di lui si esprime Alberto Asor Rosa: “Nel complesso multiforme della sua opera, quasi tutta mediocre e di limitati orizzonti, dominata da una persistente incertezza di scelte, e dall'imitazione di autori contemporanei di tendenze quanto mai contrastanti, si può, tuttavia, stabilire un punto fermo, storicamente importante: l'A. partecipa abbastanza seriamente (e con maggior impegno di quanto non sia sembrato ad alcuni critici suoi) di quel fervore di rinnovamento del nostro teatro, che, dopo la metà del sec. XVIII, investe e travolge le rappresentazioni sceniche a soggetto, rimettendo in onore le commedie regolate, scritte interamente dall'autore, con criteri di dignità artistica e formale. È fra quelli che attribuiscono al teatro comico il compito di affrontare le piaghe del tessuto sociale e curarle con l'arme della satira e del sarcasmo: e in ciò può dirsi uno dei tanti moderati illuministi di quel tempo, che importavano in Italia dalla Francia temi e battaglieri propositi. S'intende bene che il suo idolo doveva essere Goldoni” 24.


Poiché disponeva di grandi mezzi economici, l’Albergati fece costruire presso la sua villa di Zola Pedrosa, prossima a Bologna, un teatro di 300 posti nel quale assieme ad altri dilettanti si diede a recitare commedie. Fra le sue traduzioni ricordiamo la Phédre e la Iphigénie di Racine; il Don Pèdre, la Sophonisbe, la Les Guèbres ou la tolérance del Voltaire. Scrisse drammi e commedie e il trattato Il Nuovo Teatro Comico in cinque volumi, oltre a diverse raccolte di lettere (Lettere CapriccioseLettere piacevoli, se piaceranno) e il componimento Novelle Morali ad uso dei fanciulli.

 
Dalla commedia Il ciarlatore maldicente, riportiamo due brani in cui l’Albergati usa il verbo “taroccare”:

 

Atto Secondo - Scena prima

 

Personaggi

 

Lisetta, cameriera della Contessa Clorinda Oronti (giovane vedova)

Alfonso, Marchese Alfonso Rovinati, ciarlatore maldicente

 

Al. Gran furori, grandi smanie, disperazioni grandissime!

Li. (tornando in dietro.) Dove?

Al. Oh bella! qui in casa, fra gli amanti, fra i futuri sposi. Non avete veduto? Non avete sentito?

Li. (con ansietà) Come! fra la mia padrona!...

Al. Sì, fra la vostra padrona ed il conte Flaminio. Ella ora passeggia coll‘Inglese.

Li. Questo l’ho veduto. Ma che per ciò?

Al. Ed il conte Flaminio tarocca, strepita, e batte i piedi furioso in camera del poeta. Non avete sentito?

Li. Ho sentito qualche cosa, ma non credevo mai (Vorrei scavare e non dire.)

Al. Oh! con voi non si può parlare. Voi diffidate di me, odio non voglio fidarmi punto di voi. Addio, addio. lo vado, se voi non andate (in atto di partire). 25

 

Atto Secondo - Scena Terza

 

Personaggi

 

Clorinda, Contessa Clorinda Oronti (giovane vedova)


Alfonso, Marchese Alfonso Rovinati, ciarlatore maldicente

 

Clorinda. E di che intendete voi di parlare?

Alfonso Dei disgusti che passano fral Conte Flaminio e voi. In tanta vicinanza allo sposarvi, non ista bene che nascano questi contrasti. La gente se ne accorge. Tutti non hanno la prudenza che ho io e che hanno gli amici veri. Si comincia a dire, a mormorare, e il male si fa sempre maggiore. Quando sarete maritati, allora anche, via allora vi si può passare il contrasto, l’inquietarvi, il non essere in pace mai mai. Fra marito, e moglie ha da essere così; ma fragli amanti, come ora siete, la cosa è affatto affatto diversa. E perciò torno a dirvi, o rompere o accomodare. 

Clorinda. E che ci è da accomodare?

Alfonso. Oh bella! Quello che è rotto. Ognuno vede, capisce ognuno che l’umore del Conte Flaminio è alterato. lo stesso l’ho sentito or ora nella camera di Filinto a taroccare, a maledire...

Clorinda. Così va bene. Io ho le ragioni di lamentarmi ed egli è quel che tarocca. 26

 

P. Atanasio da Verrocchio (1748-1802), pseudonimo di Domenico Luigi Batacchi, fu lettore di teologia presso il Convento dei Padri Minori Osservati. Scrisse Il Zibaldone, poemetto satirico in dodici canti che godette di una grande popolarità e le Novelle Galanti in sesta rima, intrise di una forte comicità. Di lui il Foscolo scrisse: “fu assai più licenzioso del Casti e nondimeno si direbbe che egli, come l’Ariosto, voglia più rallegrare che corrompere i suoi lettori”.


Dalla Novella VII: La Vita e la Morte di Sansone riportiamo la seguente sestina:


Per risponder più d' uno aprì la bocca,
E poi rimase come Prete Peo:
Chi mastica fra' denti, chi tarocca;
Un gratta il mento, un altro il culiseo.
Chi stringe i denti, chi 'n crespa le gote.
Ma nissuno di lor risponder puote. 27

 

Lo scultore Antonio d’Este (1754-1837) formatosi assieme al Canova, divenne col tempo direttore del Museo Chiaramonti (Musei Vaticani). Scrisse le Memorie di Antonio Canova, pubblicate postume dal figlio di lui Alessandro anch’egli scultore.

 

Dalla lettera n. 55 che Luigia Giuli inviò ad Antonio d’Este per renderlo edotto sullo stato delle cose in casa Canova, riportiamo un breve stralcio:

 

Mio caro D'Este,

Vorrei potervi dire tutto quello che succede, e tutto il nostro viaggio; ma sappiate che sono così occupata per stare di continuo con tutti quelli che ogni momento capitano in questa casa, che non ho un momento di pace. Lascio considerare a voi come Canova tarocca, perchè li tocca di perdere tempo: è bensì che lascia a me tutti li dritti di complimentaria. 28

 

Domenico Ballestrieri (1714-1780) fu poeta e autore di molti versi in dialetto milanese. A lui si deve assieme al Conte Imbonati e al poeta Carl’Antonio Tanzi la restituzione dell’Accademia dei Trasformati. Fra le sue opere occupa un posto di rilievo La Gerusalemme Liberata travestita in dialetto milanese pubblicata a Milano nel 1772, da cui riportiamo due ottave con il verbo “taroccare” dopo i versi originali del Tasso:

 

Testo originale

 

Canto V - Ottava LXXXI

 

   Ratto ei ver lei si move; ed all’insegna
Tosto Rambaldo il riconosce, e grida
Che ricerchi fra loro, e perché vegna.
Vengo, risponde, a seguitarne Armida;
Ned ella avrà da me, se non la sdegna,
Men pronta aita, o servitù men fida.
Replica l’altro: Ed a cotanto onore,
Di’ chi t’elesse? Egli soggiunge: Amore.

 

Canto V
 

   El ghe corr a la contra alegrament;
Ma Rambald, cognossendel, el tarocca:
Cossa fet chì, el ghe dis, con s’ardiment;
E lue l respond: Vuj seguità stà gnocca;
E se tra i sœu fedel la se resent
De ricevem, faroo quel che me tocca.
L’olter repía: Cossa gh’entret con lee?
Che meret gh’et? L’amor; e quest l’è assee. 29

 

Testo originale


Canto XIX - Ottava XXV

 

   Il cader dilatò le piaghe aperte,
E 'l sangue espresso dilagando scese.
Punta ei la manca in terra, e si converte
Ritto sovra un ginocchio alle difese.
Renditi, grida; e gli fa nove offerte,
Senza nojarlo, il vincitor cortese.
Quegli di furto intanto il ferro caccia,
E sul tallone il siede; indi il minaccia.


Canto XIX

 

   In del cascà i ferid se arvinn pussee,
E sbilzè fœra el sangu de paricc bœucc;
E el sta a difende, no podend stà in pee,
Con giò la man manzina e su on genœucc.
Rendet, el dis Tancred, abbien mò assee,
Con cortesia che la ghe quatta i œucc,
El le ringrazia el Turc cont ona gnocca
In sul tallon, e pœù ancamò el tarocca. 30

 

Riguardo la curia papale al tempo di Clemente XIII che sedette sulla Cattedra di San Pietro dal 1758 al 1769, appare di un certo interesse, per comprendere la vita di quella Corte, uno scritto anonimo che venne portato alla luce e fatto conoscere dal Cardinale Andrea Archetti, Nunzio in Polonia. Da questo documento, che ci presenta i diversi personaggi che gravitavano attorno a Papa Clemente quali responsabili delle diverse mansioni inerenti alla sua persona, riportiamo quanto scritto su alcuni di loro, cioè il tesoriere, il confessore, il caudatario (colui che aveva il compito di sorreggere lo strascico dell’abito del Santo Padre), il segretario, il guardarobiere e il coppiere (colui che si occupava di reperire i vini) che è quello che “tarocca”.


Da questo documento traspare un’immagine della Corte Papale alquanto indecorosa, tanto che l’anonimo autore continuò con le seguenti parole: “Non mancherebbe al Santo Padre che una migliore recluta nel sacro Collegio, nella prelatura, nella sua stessa famiglia, se le circostanze de' tempi permettono alle persone di prodursi, ed a lui medesimo di conoscerle bastantemente: allora le cose muterebbero di aspetto; basterebbe la sua vera pietà, tacciata di bigotteria, comparirebbero le tante elemosine con una migliore distribuzione, si divertirebbe la città nei limiti convenienti e doverosi, si accomoderebbero le varie differenze con i principi; tutto finalmente seconderebbe le rettissime intenzioni del più amabile dei sovrani”. Tuttavia, occorre anche dire che molte voglie ingorde e non soddisfatte gravitavano attorno alla Corte Papale e anche se si rendeva necessario un cambiamento radicale sia del ministero che della corte stessa, lo scritto tradisce ambizioni deluse, irritazioni ed esagerazioni di partito.


Notizie del Cardinale Andrea Archetti, Nunzio in Polonia


«Il nobilissimo monsignor Lucca dispone del borsellino del papa in elemosine arbitrarie e capricciose. Le premure delle belle dame sono sempre preferite, e chi si prostra al suo gran merito con atti di ossequio e di rispetto, frequentando la sua anticamera, e lodando la sua casa e la sorella, parte contento.

«Il confessore monsignor Baccoli regola la coscienza del papa da vero terziario, professore della venerabile Società.

«Il caudatario sotto-guardaroba numera continuamente ed incarta con spirito gli Agnus Dei. Occupazione adattatissima al suo talento.

«Monsignor Saetta, celebre suonatore di viola, piange e scrive tremando al Doge di Venezia.

«Il guardaroba abusa spesso della bontà del S. Padre. Frequenta la sera il caffè di Mariuccia Colonna, meretrice insigne negli atti, nella condotta e nel sembiante.

«Il coppiere mangia, dorme, tarocca e lambicca il cervello del suo ridicolo segretario per riuscire con prestezza alle sue brame 31.


Concludiamo questa nostra disamina sul verbo taroccare nella sua terza persona dell’indicativo presente, con due libretti d’opera: il primo è Elena, dramma eroicomico rappresentato alla Scala di Milano nel 1816, con versi di Andrea Leone Tottola e musica del grande Johann Simon Mayr (1763-1845), mentre il secondo è Il Contraccambio ovvero l’Amore alla pruova, messo in scena a Napoli nell’inverno del 1823 presso il Teatro del Fondo su musica di Luigi Carlini.


L’Elena inizia con un’immagine e con versi assai simbolici appartenenti al mondo dei tarocchi: la Ruota della Fortuna: “Come veloce ruota tu giri, / Così del mondo van le vicende; / Chi prima sale rapido scende, / Chi giace al basso salendo va”.

 

Elena


Atto Primo - Scena Prima (L’azione è nelle vicinanze della Contea di Arles nelle Provenza).


Il Teatro presenta l'interno di un Atrio rustico sostenuto da vecchi pilastri, a traverso de' quali veggonsi deliziose colline; alla destra è situata una lunga tavola, sulla quale sono varj vasi di stagno, e di terre, e tutti gli utensili di agricoltura.


Seduti ai banchi, che circondano la tavola indicata, veggonsi varj Contadini addetti al lavoro degli attrezzi di agricoltura. Anna ed Ernesta sedute annodano alcuni fiori, indi Urbino (un pastore)


Due contadini
Come veloce ruota tu giri, 
   Così del mondo van le vicende; 
   Chi prima sale rapido scende, 
   Chi giace al basso salendo va.

(facendo girare una ruota, sulla quale affilano alcune falci)


Tutti gli altri
Chi prima sale rapido scende,
   Chi giace al basso salendo va.

Due altri
Batti martello, ma i colpi tuoi 
   Dian sul cervello di quell'amante, 
   Che mentre in tasca non ha contante,
   Vuol dalle femmine farsi burlar.
                     (battendo i martelli nel lavorare)


Gli altri
E mentre in tasca non ha contante
   Vuol dalle femmine farei burlar.

Anna e Ernesta a due
Rosa vezzosa, vago giacinto
Come un bel nastro vi unisce, e annoda,
Cosi quel nodo che il cor mi ha avvinto
Al mio Fileno ite a mostrar.

Gli altri
Cosi quel nodo che il cor le ha avvinto
Al lor Fileno ite a mostrar.

 

Urbino
Attenti alla fatica
Che rapide van le ore:
E stanno le signore
Bei fiori ad annodar? (i lavoratori fanno silenzio all’arrivo di Urbino)

 

Anna
Vi spiace?

 

Ernesta
Vi molesta?

 
Anna ed Ernesta a due
Dar conto a voi non deggio;
Partite, che di peggio
Or or vi può arrivar.

 

Urbino
Perchè gentil visino
Quel fior non doni a me? (ad Anna)

 

Anna
Lo serbo a un bel nasino,
L'odor non è per te.

 

Urbino
Ebben, presto al lavoro,
La ruota un po'girate,
Se attente non vi state
Noi parleremo in tre.

 

Anna
Ma guarda l'insolente!

 

Ernesta
Ma veh! l'impertinente!

 

Anna
Ora ti graffio il viso.

 

Ernesta
Or perdo la pazienza.

 

Contadini
Piano... non più... prudenza!

 

Urbino
Ah! linguacciute.

 

Contadini
Zitto! (lasciano il lavoro, si frappongono)

 

Anna ed Ernesta
Brutt' orsacchion!

 

Contadini
Ma piano!

 

Anna ed Ernesta a due
Se non ti stai nei limiti
Villan! malnato! indegno!
Del tuo dovere i termini
Saprò insegnarti affè

 

Urbino
O fate più giudizio,
Zucche sventate, e matte,
O dal padron vo' subito,
E guai saranno affè.


Contadini
Quì si tarocca e strepita,
Si grida, e si fa chiasso,
Ma non si sa comprendere.
Tanto rumor perché. (i contadini tornano al lavoro)

 

Urbino
Or bene, al padre tuo
Vo' tosto il tutto a palesar

 

Anna
Ma bravo;
Or si travasti il modo
Di farti amar. Guardati in uno specchio,
E tu stesso dirai, che brutto vecchio! 32

 

Il Contraccambio ovvero l’Amore alla pruova

 

Atto Primo - Scena X (La scena è in un castello della Polonia appartenente al barone)

 

Personaggi

 

Il Re di Polonia
Il Barone Sigismondo Lovvinsky
Elisa, promessa sposa al duca di Kalitz
Il Duca Alberto di Kalitz

 

Duca. Orsù che facciamo? altrove passiamo;
Se voi permettete, mio caro Barone,
il feudo, il palazzo, vo tutto girar.
Barone - Elisa. Si serva, padrone, chi può comandar?
Duca al Barone.  Sùvia precedete. Con sua permissione,
(al Re) La bella sposina io voglio appoggiar.
Re. Si serva, padrone chi può comandar?
Duca. Vezzosa!
Elisa. Ah signore…
Duca. Carina!
Elisa. Ah che dite!
Barone. Non fate la sciocca con sua Maestà.
Duca. (L'amico tarocca; da rider mi fa! )
Re. El. (Soffrire mi tocca; che rabbia mi fa!)
Re. (Ridi, divertiti, fammi dispetto,
Ma se non termina questo spassetto
Oggi la vipera al ciarlatano
O presto, o tardi si volterà)
Elisa. (Par che lo facciano per mio dispetto;
Ma se non termina questo spassetto
Affè la vipera al ciarlatano
O presto, o tardi si volterà)
Duca. (Povero diavolo! prova dispetto, Ma se non termina il mio spassetto,
Affè la vipera al ciarlatano
O presto o tardi si volterà)
Barone (Il caro genero prova' dispetto,
Ma se non opera con più rispetto,
Affè la vipera al ciarlatano
O presto, o tardi si volterà. 33

 

Note

 

1. Si veda I Tarocchi in Letteratura I.

2. Ricciardetto di Niccolò Carteromaco, In Parigi, A spese di Francesco Pitteri Libraio Veneziano, MDCCXXXVIII. [1738], p. 27.

3. Ibidem, p. 64. 

4. Ibidem, p. 85.

5. Si vedano I Tarocchi in Letteratura II III e Del Minchionare.

6. Commedie di Gio. Batista Fagiuoli Fiorentino, Tomo Primo, In Lucca, Per Salvatore, e Giandomenico Marescandoldi, MDCCXXXIV. [1734], pp. 201 - 202.

7. Alla Serenissima Violante Beatrice di Baviera, Gran Principessa di Toscana, Per la sua recuperata salute l’Anno 1696, Cap. XIII, in “Rime Piacevoli di Gio: Battista Fagiuoli Fiorentino”, Volume I, Colle, Tipografia Pacini e Figlio, 1827, p. 85.

8. Si vedano I Tarocchi in Letteratura I - IIIDel MinchioneDel Minchionare e della Minchinaggine, e Scrivendo e Taroccando.

9. Le Rime di Giovan Santi Saccenti da Cerreto Guidi, Accademico Sepolto..., Prima Edizione Fiorentina, Tomo Secondo, Firenze, Si vende da Gaspero Ricci librajo da S. Trinita, 1808, pp. 17 - 1 8.

10. Si veda Il “Malmantile Racquistato”.

11. Il Malmantile Racquistato, Poema di Perlone Zipoli, In Firenze, per Michele nestenus, e Francesco Moücke, MDCCXXXI. [1731], p. 135.

12. Le Stagioni Con altre Poesie del Canonico don Gaetano Guttierez del Hoyo Accademico Trasformato, In Brescia, Dalle Stampe di Gianmaria Rizzardi, MDCCLX. [1760], p. 104.

13. Si veda I Tarocchini nel Settecento.

14.  Il Cicerone di Giovan-Carlo PasseroniTomo IX, Venezia, Giuseppe Antonelli Editore,1845, p. 224.

14 Ibidem, p. 246.

15. Il Cicerone, cit., Tomo Secondo, Bassano, Remondini di Venezia, 1775, p. 63.

16. Poesie di Giovanni Meli, Versione dal Dialetto Siciliano di Giuseppe Gazzino, Volume Primo - Bucoliche, Fata Galante, Favole - Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1858, pp. 295-296.

17. Poesie Siciliane di Giovanni Meli, Settima Edizione, Palermo, Andrea Santoro, 1847, p. 146. Per la traduzione in italiano di questa favola e dell'ottava successiva ci siamo valsi della collaborazione della Signora Cetty Giuffrida, a cui rivolgiamo i nostri più sentiti ringraziamenti.

18. Giovanni Meli, Opere, Palermo, Roberti, 1838, p. 312.

19. Giosuè Carducci (a cura), Versioni Poetiche di Vincenzo Monti[Persio, Voltaire, Omero, Pyrker, Lemercier, ec.], con giunta di cose rare o inedite, Firenze, G. Barbera, 1869, p. 211.

20. Piacenza, Maino, 1814.

21. Nicola Limosino, in Biografia degli Italiani Illustri nelle Scienze, lettere ed Arti del sec. XVIII, e de’ Contemporanei, compilata da Letterati Italiani di ogni Provincia e pubblicata per cura del Professore Emilio de Tipaldo”, Volume Terzo, Venezia, Alvisopoli, 1836, p. 502.

22. Nicola Limosino, Don Chisciotte della Mancia, Torino, Luigi Soffietti, 1818, p. 22.

23. Commedie di Giovan Gherardo de Rossi, Tomo II, Prato, Fratelli Giachetti, 1826, p. 18.

24. Voce: Albergati Capacelli, Francesco, in Alberto Asor Rosa, “Dizionario Biografico degli Italiani”, Volume I, 1960.

25. Scelta di Commedie e Novelle Morali del Marchese Albergati Capacelli, Tomo SecondoLondra, Giuseppe Cooper, s.d., pp. 53-54.

26. Ibidem, p. 61.

27. Domenico Luigi Batacchi, Novelle galanti edite ed inedite del P. Atanasio da Verrocchio, Minore Osservante di...[sic], Tomo III, Londra [falso luogo], Richard Barker [falso editore], 1800, p. 12.

28. Alessandro d’Este (a cura), Memorie di Antonio Canova scritte da Antonio d’Este, Firenze, Le Monnier, 1864, p. 417.

29. Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese (Vol. VII).  La Gerusalemme Liberata, in “Opere di Domenico Ballestrieri”Vol. VIIIMilano, Giovanni Pirotta, 1816, p. 120.

30. Ibidem, p. 438.

31. Notizie del Cardinale Andrea Archetti, Nunzio in Polonia, in “Archivio Storico Italiano”, a cura della R. Deputazione di Storia Patria per le Province della Toscana, dell’Umbria e delle Marche, Serie Terza, Tomo I, Parte I, Firenze, M. Cellini e C., 1865, pp. 75 - 76.

32. Elena, Dramma Eroi-Comico di Andrea Leone Tottola, da rappresentarsi nel R. Teatro alla Scala l’Autunno dell’anno 1816, Milano, Giacomo Pirola, 1816, pp. 9 - 11.

33. Il Contraccambio ovvero l’Amore alla pruova, Dramma per Musica da rappresentarsi nel R. Teatro del Fondo nell’Inverno del 1823, Napoli, Tipografia Flautina, 1823, pp. 22-23.

 

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