Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

I Tarocchi in Letteratura IV

Testi e resoconti di celebri letterati dal XVI al XIX secolo

 

Andrea Vitali, gennaio 2009

 

 

Ippolito Salviani - Francesco Fulvio Frugoni - Giovanbattista Fagiuoli - Giovanni Meli - Giuseppe Parini - Lorenzo Mascheroni - Vincenzo Monti -  Giuseppe Gioacchino Belli -  Norberto Rosa - Alessandro Manzoni  - Ugo Foscolo - Stendhal - Charles de Brosses - Leopoldo Cicognara Luigi Gattini. 


Ippolito Salviani
 (1514 - 1572) fu medico, naturalista e letterato. Scrisse diverse opere di medicina e La Ruffiana, opera teatrale che ebbe larga diffusione nella sua epoca. In un suo passo, l’autore menziona il gioco dei tarocchi:


ATTO TERZO - Scena Prima

 

M. Claudio, cursore

Farfanicchio, ragazzo


Claudio
: Bel pranzo per mia fe è stato questo, che ci hà fatto questa mattina M. Lovisio, per esser intrato nuovamente al numero di noi altri cursori: ma dubito ben, che m' haranno tenuto per scortese, per essermi così subito partito dopo pranzo, & non haver voluto restar a giocar un pezzo insieme con gli altri a Primiera, overo a Tarocchi, si come tutti me n' hanno pregate pur assai, ma mi era di forte entrato in capo il cricco di trovar Iacovella per intendere s'ella habbia parlato a questa Venetianetta venuta di nuovo, si come la mi promise hieri mattina, che non mi ci harrebbono tenuto le catene.
Farfanicchio: Tirintina, tirintina fusse festa ogni mattina, ben da bevere, & ben da mangiare, e poca voglia di lavorare 1.

 

Giovanni Battista Leoni (1542/6-1613/8), poligrafo e storico, fu attivo prevalentemente a Venezia dove fondò nel 1593 la seconda Accademia Veneziana. Attore eclettico di madrigali, di drammi e favole morali, compose nel 1583 la sua opera più famosa, le Considerationi sopra l’Historia d’Italia di messer Francesco Guicciardini in difesa della politica veneziana. La ‘tragisatiricomedia’, così come da lui descritta, Roselmina, firmata con lo pseudonimo di Lauro Settizonio da Castel Sambucco, meritò una citazione da parte di Lope de Vega.

 

Di nostro interesse è una lettera, inserita nel volume secondo delle sue Lettere Familiari 2inviata ‘Di Roma à 6. di agosto 1589’ al pittore Francesco Montemezzano (1555-1600) da lui tenuto in grande considerazione, con la quale il Leoni lo invitava a Roma per respirare la grandezza pittorica dei grandi artisti, memore fra l’altro di un incontro da lui avuto da fanciullo con Tiziano che dopo essere andato a Roma aveva migliorato moltissimo la sua arte:

 

“Et io mi ricordo haver sentito dire à Messer Titiano, mentre che nella mia pueritia, per apprender anco qualche cosa di pittura, me n’andavo alle volte in casa sua, che dopo esser egli stato in Roma, haveva grandemente migliorato le cose sue" 3.  

 

Leoni critica quei pittori che secondo il suo parere sbagliavano nel non seguire le morbidezze, la naturalità e il realismo degli affetti, a differenza dei grandi artisti che lavoravano a Roma: “Et quello, che più importa ho avertito, che oltre la prattica della prospettiva, molti di loro hanno saputo esprimer meravigliosamente ne le attitudini gli affetti particolari di quello, che si rappresenta, di modo che molto facilmente si conoscerà la ferocità, e lo sdegno in quel Tiranno, la modestia in quella Vergine; & così la mestitia in un prigione, e l'astrattione in un Filosofo; quello, che pochi forse sanno far hoggidi” aggiungendo “perche vedemo spesso in una battaglia figure con mostacci ridenti, come se giocassero à Tarocchi; e altri in uno sponsalitio così ingrugnati, come se fossero per fare alle pugna. Errori veramente da esser e considerati, e corretti, con l'imitatione di questi celebratissimi satraponi dell'arte” 4

 

Francesco Fulvio Frugoni (c. 1620 - dopo il 1684), frate dell'ordine dei padri minimi di San Francesco da Paola, si dedicò alla poesia e alla drammaturgia. Il suo componimento più famoso, dopo la satira Il Cane di Diogene (1689), rimane l’Epulone, melodramma del 1670. Da un passo ricaviamo informazioni su certe nomee negative attribuite ai giocatori di tarocchi. Ad esempio, era reputato un Fante di Coppe chi non possedeva il Re di Denari, mentre chi non aveva in mano né il Sole, né la Luna, né il Mondo era destinato a rimanere un ‘Tarocco’, cioè un poveretto. Attribuzioni che dal gioco passarono al vivere quotidiano per sottolineare lo stato economico delle persone. 

 

L’Epulone - Cento Riflessi Arguti sopra alcuni Testi dell’Opera

 
Atto Quinto - Scena XII

 

“Mi si condoni la galanteria di questo scorcio, perché tratto di doni: Son caduto dal serio nel giocoso, perchè parlo di donativi, che sogliono fare così bel giuoco, che chi non hà un Rè di Denari è riputato un fante di coppe: chi non hà il Sole, la Luna, ò il Mondo in manó resta un Tarocco” 5.

 

Il Frugoni diede alle stampe nel 1643 la Guard’Infanteide 6satira contro la donnesca moda imperante di indossare quel capo d’abbigliamento.

 

Il Guard’Infante, conosciuto in Italia verso la fine del Cinquecento, consisteva in un’armatura circolare di ferro e legno composta da una serie di cerchi concentrici sostenuta da una pesante fodera posta sotto la gonna per tenerla gonfia e tesa in foggia di campana. Tale struttura, che allargava la gonna a dismisura, faceva sembrare alquanto stretto il punto vita. In Italia venne chiamata inizialmente faldea o faldiglia oppure verducato e solo verso la metà del Seicento conosciuta come Guardianfante, vocabolo già in voga in Spagna fin dal Cinquecento. Questa moda, originariamente ideata per difendere dagli urti le donne in cinta, da cui il nome, divenne talmente popolare da essere guardata con sospetto dalle autorità religiose e dai moralisti, in quanto poteva nascondere gravidanze indesiderate dando adito a una sessualità fuori controllo. A volte il suo uso rendeva ridicolo il muoversi delle donne in quanto poteva essere larga quanto l’altezza di coloro che la indossavano, comportando goffe azioni laterali solo per oltrepassare una porta o per sedersi. Essa divenne oggetto di satira da parte di letterati come il Tassoni, il Lippi e il Frugoni che pubblicò per l’Accademia degli Addormentati, di cui faceva parte, il poema giocoso La Guard’Infanteide sotto lo pseudonimo di Flaminio Filauro. Nella prefazione attribuisce il suo uso a un peccato d'amore: "Bisogna confessare essere il Guard Infante l'antemurale della honestà, lo scudo della modestia, perche le Donne, con questo si lungo Arnese d'intorno fanno star gli huomini da se lontani almeno tre braccia”. 

 

Al canto settimo i commenti di un personaggio che aveva osato criticare l’ampiezza della gonna vengono valutati al pari di sciocchezze, dato che quella struttura era considerata dai più di grande bellezza, e per questo esortato a dedicarsi piuttosto ai tarocchi in modo da poter sfogare nel migliore dei modi il suo sdegno. Essendo il poema di carattere comico, l’ottava, come l’intero poema, si manifesta al pari di una satira nei confronti di coloro a cui piaceva quella moda i quali, ostentando una comprensione che andava al di là della loro reale intelligenza, diffamavano coloro che al contrario la criticavano. Inoltre, in un caso come questo, l’inviare qualcuno a giocare a tarocchi significava creare un parallelo fra l’intelligenza del personaggio e quel gioco, il cui nome, come sappiamo, identificava un personaggio stupido e balordo 7

 

Canto Settimo

 

Andate, che non vagliono un baiocco

   Questi vostri consigli senza ingegno,
   E fate, che da voi mai non sia tocco
   Il Guard’Infante così bello, e degno.
   Ite più presto a giocar a tarocco,
   E più nel sodo ad isfogar lo sdegno,
   Che non havete occasion' alcuna
   Di conturbár il Cielo della Luna 8.

 

Su Giovanbattista Fagiuoli (1660-1742), di cui abbiamo riferito sulla vita e su diversi suoi componimenti in nostri saggi 9. riportiamo alcuni versi da una sua satira benevolmente rivolta a Pandolfo Pandolfini, un letterato del tempo, per aver voluto assumere l’incarico di senatore. Un incarico che gli avrebbe portato via non solo il tempo per continuare a leggere i suoi amati libri, ma anche per dedicarsi alle più semplici e innocenti attività, come ad esempio giocare a tarocchi.

 

Rime di Giambattista Fagiuoli

 
Cap. I

 

Al Signor Pandolfo Pandolfini, nella sua promozione al Senatorato

 
Affè una volta io vo’ far un capitolo 
   Il qual sia in lode degli scimuniti;
   E s’ io v’ ho a dir il vero, ho già imbastitolo.
Ell’è pur vera: a voi tra gli eruditi
   Libri non vi bastò di trattenere,
   E in essi consumare i dì graditi,
Che voglia anche vi venne di sapere
   Quanto Bartolo e Baldo han detto e scritto:
   Ora vedete voi, vi sta il dovere.
Quanto metteva conto stare zitto,
   O studiar per rigiro ascosamente,
   Come fassi a commettere un delitto.
Ecco che n’è avvenuto finalmente:
   Voi siete stato fatto Senatore:
   V’han fatto un bel servizio veramente.
Perchè il vestito muta di colore,
   Mutar voglie e pensieri, e non trovare
   Di viver a suo modo i dì, nè l’ore.
Giusto, quel, ch’ un non vuole, avere a fare:
   Studiar materie rancide, odïose,
   E quelle geniali tralasciare.
Oh quanto son difficili le cose
   Che si fan contraggenio, oh quanto mai,
   Ancorchè non sian punto fastidiose!
Ed io lo dico perchè lo provai;
   E, quel che è peggio, tuttavia lo provo:
   Però sempre tarocco e taroccai.
Stupor mi arreca e ognor mi giunge nuovo,
   E mi fa venir rabbia, quand’ un dice:
   Di passar l’ore e i dì modo non trovo 10.

 

Dal poema eroicomico Don Chisciotte e Sancio Panza (1855) del siciliano Giovanni Meli (1740-1815), che trasferisce in Sicilia la trama dell’omonimo libro di Miguel de Cervantes, riportiamo due ottave in cui sono citati i tarocchi.

 

Canto Settimo - Ottava 28

 

     Siccome avviene allor che un garzoncello
Colle carte da bisca o co’ tarocchi
Intento a fabbricar forte castello
Tien fisi agli archi, a’ merli, e mani ed occhi;
Nel porre all’opra l’ultimo suggello,
O che gli tremi il polso o un dito il tocchi,
O un respiro gli fugga, in un momento
Cade quanto gli diè sì lungo stento 11.

 

Nella seguente ottava l’autore fa riferimento alla carta del Mondo dei tarocchi siciliani, raffigurata da Atlante nell’atto di sorreggere "la gran balla" (il globo terrestre):

 

Canto Duodecimo - Ottava 84

 

     Fama non più, non più la Grecia vante
Ercole suo col globo in sulla spalla;
Nè più il tarchiato Mauritano Atlante
Ostenti ne’ tarocchi la gran balla,
Chè a sì stupende gesta e ad altrettante
L’Eroe non cede, il qual più in alto galla;
Fra tutti e tre poco divario v’ ha,
Perchè nel loco, e non in altro sta 12.

 

Sappiamo che il gioco dei tarocchi affascinò, oltre alla stragrande maggioranza del popolo, i grandi uomini della cultura italiana del Sette e Ottocento, come il Parini, il Manzoni, il Foscolo e il Monti. Camillo Ugoni nell’opera Della Letteratura Italiana nella seconda metà del sec. XVIII, così scrive a proposito del Parini (1729-1799): “Chi riassuma col pensiero il complesso di queste qualità non avrà maraviglia, che il Parini acquistasse in patria e fra le procelle politiche il rispetto di tutti i partiti, e quell'autorità, di cui niun altro letterato in Milano ha forse goduto giammai. È singolare la stranezza de' pregiudizj, che il volgo si forma intorno al merito de’ letterati. Un uomo di bassa condizione interrogato a Milano, se avesse conosciuto il Parini rispose: chi? l'Abate? Se l’ho conosciuto? quello era un uomo! giocava benissimo al tarocco” 13.


Lorenzo Mascheroni
 (1750-1800), letterato ma soprattutto celebre matematico del tempo, di cui abbiamo scritto altrove 14, riporta nei suoi componimenti diversi riferimenti ai tarocchi. Uno di questi si trova in una poesia scherzevole rivolta a un curato esortato dall’autore a condannare senza pregiudizi la matematica e la geometria in quanto il loro approccio scientifico minava pericolosamente i dogmi della Chiesa. Ovviamente si tratta di una satira a contrario sensu, con cui il Mascheroni intese colpire attraverso il curato l’accanimento dei religiosi del tempo che continuavano a contrastare il pensiero scientifico.


Poesie Scherzevoli


Al Reverendo Signor Curato di San Cassiano (il reverendo don Antonio Serughetti)


1 gennaio 1786


Confessar non volete i Matematici?

Voi fate bene, mio signor Curato;

Poichè questa scienza, al dir de' pratici,

Ella è per voi peccato riservato;

Incorrereste tosto la censura,

Perdereste la Messa con la Cura.

 

Confessar non volete i Matematici?

Eppur, quanto son sciocche le persone!

Signor Curato, i vostri amici pratici

Dicon che avete Euclide in confessione.

Tenetel sub sigillo, o mio Curato,

Fareste a rivelarlo un gran peccato.

 

Mirate questo libro ben legato.

Benchè sia pieno di segni di croce,

Non è già il Ritual, signor Curato.

È un algebrista; fatevi la croce:

È un libraccio inventato dal Demonio;

Che il cielo ve ne guardi e sant'Antonio.

 

Signor Curato mio, pieno di zelo,
Quando spiegate il simbolo in volgare,
Dite a' Fedeli, che per gire al Cielo
Convien la Matematica lasciare.
Così vi seguiranno tutti quanti,  
E voi sarete il massimo de' Santi.

 

Chi a studiar Matematica si mette
È un eretico marcio, e nulla crede;
Poichè quel dir che nove è più di sette,
Fa perder i principii della Fede.
Sono studj inventati dagli Inglesi,
Empj, ateisti, eretici palesi.

 

Ditene tutto il male, e non temete
Qualche proibizion; pena la vita,
Come l'avete per chi voi sapete;
Chè già la Matematica è proibita;
Chè nemmen.voi ne avete le licenze;
Onde ditene pur mille insolenze.

 

Dite, che quelli, che hanno apostatato,
Il Voltaire, il Rousseau coi lor compagni,
Prima hanno Matematica studiato,
E dopo a Dio voltarono i calcagni;
E dite franco, che Geometria
L'Anticristo esser suol dell'eresia.


Dite che Cavalieri a voi ben noti,
Ove avete l'onor di conversare,
Or non son più com' erano devoti,
Volendo Matematica studiare,
In quelle vespertine ore quiete,
Che giocare a tarocco voi solete.


Onde avvien poi, che perdano il rispetto
All'infuso saper del lor Curato;
Dicon, che l'aria pesa anche a dispetto
Di quel che ad esso è stato rivelato;
E senza compassione ad ogni istante
Il fanno comparire un ignorante.


E sopra tutto i Chierici fan male
In Fisica a studiar Geometria;
Chè quello che più importa è la Morale,
Che anche a fare il Curato apre la via;
Benchè però un po' d'Algebra sia buona,
Quando il merito manca a una persona.


Curato mio, se pur avete pratica
Della vostra locanda numerosa;
Se mai v'è alcun, che studj Matematica,
Cacciatel via qual pecora rognosa;
Che non infetti tutti gli altri, e poi,
Che non attacchi il male ancora a voi 15.

 

In uno dei suoi dialoghi Vincenzo Monti (1754-1828) per esprimere la morte fa riferimento al “Tredici dei Tarocchi” laddove un giornalista, non sapendo reggere agli alti ragionamenti su alcuni letterati messi in bocca a un pedante, trasalendo sviene, dando la sensazione di essere morto.

 

 Dialoghi del Cavaliere Vincenzo Monti

 

Dialogo Duodecimo  - Matteo giornalista, Taddeo suo compare, Pasquale servitore e Ser Magrino pedante

 

Mag. Quantunque volte meco pensando riguardo che già essendo gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di mille ottocento sedici, in questa egregia città di Milano, oltre ad ogni altra italica doviziosissima, pervenne una poetica pestilenza, la quale per operazion d .influssi stranieri, o per le proprie nostre scempiezze, da giusta ira d'Apollo a nostra vergogna mandata sopra i cervelli, alquanti anni davanti in diverse parti d'Italia incominciala, quelle di innumerabile quantità di poetastri avendo ripiene, senza ristare, d’un luogo in un altro continuandosi, nella capitale della Lombardia si è miserabilmente ampliata; ed in quella non valendo alcuno senno…
Tad. 
Alto, sig. Magrino, fermate; chè il povero mio compare casca in deliquio.
Mag. Per la barba di messer Giovanni egli è svenuto davvero. Che vuol dir questo?
Tad. E noi capite? Vi siete spinto sì alto, su le ali del Certaldese, che questo infelice per voler seguire troppo dappresso il vostro volo sublime, e non aver penne da sostenersi, è stato preso da un subito capogiro. Ma gli è nulla. Vedete che già ripiglia la conoscenza. - Come va, compare? rispondi, come ti senti?
Mat. Ah Taddeo: chiamami il confessore: aiutami a dire in manuss tuasdomine.
Tud. 
Via, via, fa animo, chè non è cosa da sbigottire, una piccola evanescenza di spiriti, e nulla più. - Pasquale, Pasquale, vien qua: sorreggi il tuo padrone.
Pas. Uh uh povero me, che mai veggo?
Tad. Un giramento di capo, e null' altro. Via, da bravo: aiutalo a buttarsi sul letto, e in poco d'ora si riavrà.
Pas. (piano a Taddeo.
) (E non vel diss’ io cha costui era il tredici di tarocco)?
Mag. (partito Matteo.) Non maraviglio se lo stil boccaccevole genera le vertigini. Egli è troppo elevato pe' volgari intelletti, e di natura troppo divina. E voi di leggieri concederetemi, signor Taddeo, che l'essere ben parlante co' letterati di bassa sfera è grande sciagura 16.

 

Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) celebre poeta romano, in un suo componimento si rivolge a un amico esortandolo a non prendere moglie, o tutt’al più se proprio doveva, ad affidarsi ai suoi consigli. Il Belli gli suggerisce infatti una donna ricca di pregi di cui tuttavia non ne conosce con esattezza l’età, supponendo in ogni modo che ella dovesse aver trascorso molto tempo andando a spasso o vissuto attorno a un tavolo a giocare a tarocchi e a primiera.

 

A Messer Francesco Spada

 

Nel giorno del suo nome, 4 ottobre 1855

 
   Havvi un guaio però, che il mondo crede
Che presto-presto voi prendiate moglie
Per metter la Comare in mala-fede.


   Non lo fate, ser Cecco, o ve ne incoglie
Qualche serqua di croci e di malanni.
V'è scorso il tempo da coteste voglie.

  
   Non la toglieste ne' vostri begli anni,
E vorrestela mo negli anni brutti
Per accoppiar coi nostri i vostri danni?


   Voi della vita vi appressate ai frutti.
Mangiavetene in pace ancora il resto,
E noi non ci lasciate a denti asciutti.


   Se poi per foia od altro fine onesto
Avete fermamente risoluto
D'appiccarvi pel collo a quel capresto,


   Chino la testa e mi rimango muto,
E volgerò l'amor che per voi sento
A secondarvi d'efficace aiuto.


   Lasciate un po ch' io mi vi ficchi drento,
Ed ho per voi già in pronto una mogliera
Che niun sapria raccapezzarla in cento.


   Degli anni suoi non so la somma intiera,
Però che n' ha perduti andando a spasso
O fors' anco ai tarocchi o a la primiera.


   Ha un volto smilzo e un ventricino grasso:
Non diè mai prole al suo primo marito;
E questo è un punto che può dirsi l'asso.


   È donna di scarsissimo appetito,
E a' suoi pasti pochissimo pretende,
Bastandole crescioni e pan bollito.

  
    Si acconcia in casa a tutte le faccende,
E dà buon sesto agli affarucci suoi,
Che meglio d'una ebrea compera e vende.

  
   Vedete proprio se non fa per voi!
Su dunque, la manritta e la man manca
Pria datele e godètelavi poi 17.

 

Del poeta Norberto Rosa (1803-1862) riportiamo tre brani tratti da diverse sue rime. In Le Orecchie, scherzevole esaltazione delle virtù di queste, egli, come già abbiamo visto a proposito del Monti, fa riferimento alla morte collegandola al tredici dei tarocchi:


Le Orecchie - 
Seconda Parte


I


Promisi di cantar con maggior lena
   Quando la prima parte io terminai.
   Ed or, vedete! c'ho la pancia piena
   Trovomi imbarazzato più che mai!
   Ma quid quid sit, o imbarazzato o no
   Promisi di cantare e canterò.


II


Se vi ricorda ancora io v'ho lasciati
   Che dicevam ch'è un privilegio raro
   L'avere un par d'orecchi sperticati,
   Insomma un par d'orecchi da somaro.
   Or bene; del mio dir eccovi prove
   Chiare... siccome il sol quando non piove.
 

III


I lunghi orecchi hanno quest'avvantaggio
   Grandissimo sui corti e sui mezzani,
   Che valgono a spiegare in lor linguaggio
   Quanti sono del cor gli affetti arcani.
   Chi la sentenza mia non trova buona
   Col Genè si consulti e col Lessona.


IV


Per esempio; un somaro è affaticato?
   Ed eccolo tener le orecchie in giù.
   Ode un rumor? le volge da quel lato.
   Arde d'amore? le rivolge in su.
   Sente sul dorso del bastone il metro?
   E in atto di pregar le stende indietro.

 

V


Sicchè quello che all'uomo è la parola
   Sono le orecchie all'asino; e mettete
   Per giunta che dell’asino alla scuola
   Altro che il vero non apprenderete:
   Dove nell' uom, sia detto a nostro onore,
   Spesso è diverso dalla lingua il cuore.

 

VI


Per me non giurerei che chi primiero
   A fabbricar telegrafi si è dato,
   Non abbia dalle orecchie del somiero
   Dedotto quel mirabile trovato.
   Vi farò delle orecchie l’alfabeto?
   No che voglio tenermelo secreto.


VII


Tempo verrà (se de'tarocchi il tredici
   Non viene troppo tosto a visitarmi
   O non manda in sua vece un par di medici)
   Ch' io ne favelli in più forbiti carmi.
   Grave è il soggetto, la materia molta,
   Ma il mondo non fu fatto in una volta 18.


Nelle seguenti rime il Rosa, parlando di un campanaro sempre assetato di cibo, racconta come un giorno questi, per essersi dato un morso alla lingua, venne trasportato alla Casa del Diavolo dal tredici dei tarocchi.


Per la morte di un campanaro in Susa

 

E ripensò agli intingoli,

   Le salse delicate,

   Che i cuochi lor, quand’erano

   Le mense apparecchiate,

   Gli fean leccare in premio

   Del celere obbedir!

 

Ah forse a tal dolcedine

   Diessi alla lingua un morso;

   Ma de’ tarocchi il tredici

   Lo si recò sul dorso,

   E a casa del dïavolo

   Pietoso il trasportò 19.

 

Nei versi sottostanti il Rosa compie un ironico lamento sul fatto di dover recedere dallo scrivere poesie per una testata giornalistica a causa delle malelingue e delle invidie che stavano minando la sua persona. Meglio trascorre il tempo a giocare a tarocchi o ad altre facezie piuttosto che confrontarsi con la maldicenza degli uomini. Almeno queste, anche se non rendevano all’uomo l’immortalità, lasciavano integro il loro valore.

 

Cicero Pro Domo Sua

 
Al Not.° G. B. Rocci D’Almese

 

Infin! mi mancano,

   Togliendo i carmi,

   Forse altri ninnoli

   Per sollazzarmi?

 

Forse non restano

   Tanti altri nienti?

   Tanti altri nobili

   Giuochi innocenti?

 

Resta l’indagine

   Degli altrui fatti;

   L’unire gli uomini

   Quai cani e gatti.

 

Resta la crapula,

   La maldicenza,

   L’infingardaggine,

   L’indifferenza.

 

Restano i sigari

   Ed i tarocchi,

   E innumerevoli

   Altri balocchi.

 

Che se non rendono

   L’uomo immortale,

   Almeno il lasciano

   Quello che vale 20.

 

Di Alessandro Manzoni (1785-1873), grande giocatore di tarocchi, si racconta che grazie alla sua ferrea memoria fosse in grado di tenere fronte addirittura all’abate Giuseppe Bottelli, un celeberrimo tarocchista. Questo religioso, che ebbe rapporti amichevoli con i massimi letterati del tempo e che intrattenne anche una corrispondenza epistolare con il Foscolo, era una persona colta, un celebre latinista, “simpatica, bella testa, di alta persona, bravissimo giocator di tarocchi, al quale però teneva fronte onorevolmente il Manzoni” il quale si lamentava solo che il Bottelli fosse al gioco dei tarocchi alquanto sprezzante, conscio com’era della sua superiorità 21.  In ogni modo, Manzoni era un profondo conoscitore sia delle regole che dei modi di dire legati al gioco: "La sera si fece la partita di tarocco alla quale Manzoni pigliò una parte vivissima, rammentando tutti a i modi di dire milanesi dei taroccanti di professione" 22

 

Anche Ugo Foscolo (1778-1827) amava giocare ai tarocchi come il fratello Giulio: di quest'ultimo siamo informati da una lettera inviata a Ugo su un incontro che ebbe con una signora con la quale si era seduto al tavolo da gioco: “Ho salutato la Fontanelli da parte tua, poich’ella è qui per partorire: ieri sera ho fatto la partita a tarocchi con lei, e lo fa spessissimo perché vi trovo buona società” 23.

 

Che il gioco dei tarocchi fosse uno dei più diffusi e praticati per tutto il Sette e Ottocento, è testimoniato da Stendhal in Roma, Napoli e Firenze, che alla data 25 ottobre 1816, lo ricorda come “una delle maggiori occupazioni dei Milanesi” citandolo fra l’altro anche nella Certosa di Parma: “Adesso il canonico andava tutte le sere a fare la partita di tarocchi a casa della baronessa Binder” 24.

 

Quanto Stendhal riporta è un vero e proprio affresco sulle credenze e sul coinvolgimento dei giocatori milanesi, a iniziare dalla Papessa Giovanna raffigurata nella carta della Papessa e dell’invenzione di quel gioco a opera di Michelangelo, per proseguire con le frasi che i giocatori adirati esclamavano contro i propri avversari. Un arrabbiarsi che tuttavia non lasciava chissà quali strascichi, tanto che un francese giudicò gli italiani essere dei vigliacchi perché non mettevano mai la mano alla spada quando giocavano a tarocco. Stendhal racconta tutto ciò assistendo a una partita fra galantuomini in un palco di teatro, come era di abitudine in quel tempo, e il fracasso condito da ingiurie che ne derivò fece per un attimo fermare la rappresentazione 25.

 

25 ottobre 1816

 

"Questa sera, una donna splendente di bellezza, di acume e di brio, la signora Bibin Catena, ha voluto provare a insegnarmi i tarocchi. È una delle maggiori occupazioni dei milanesi. È un gioco che ha non meno di cinquantadue carte, ciascuna grande come tre delle nostre. Una ventina di esse ha la funzione dei nostri assi e prendono tutte le altre; sono disegnate benissimo e rappresentano il Papa, la Papessa Giovanna, il Matto, l’Impiccato, gli Innamorati, la Fortuna, la Morte, ecc. le altre, come al solito, sono divise in quattro semi (bastoni, denari, spade, coppe); le carte portano l’immagini di bastoni, di denari, di spade e di coppe. Il signor Reina, uno degli amici ai quali mi ha presentato la signora G…, mi dice che questo gioco è stato inventato da Michelangelo. Questo Reina ha messo insieme una delle più belle biblioteche d’Europa: in più, è un uomo generoso, qualità rara e che non ricordo d’aver mai visto unita alla bibliomania. Fu deportato alle Bocche di Cattaro nel 1799.

Se Michelangelo ha inventato il tarocco, ha trovato con questo un bell’argomento di litigi per i milanesi, e di scandalo per gli zerbinotti francesi. Ne ho incontrato stasera uno che giudicava gli italiani propriamente dei vigliacchi perché non mettono venti volte mano alla spada durante una partita di tarocco. Effettivamente, i milanesi, avendo la disgrazia di essere totalmente privi di vanità, spingono all’estremo il calore e la franchezza delle loro dispute di gioco. In altri termini, trovano nel gioco del tarocco le emozioni più forti. Questa sera c’è stato un momento in cui ho creduto che i quattro giocatori stessero per prendersi per i capelli; la partita è stata interrotta almeno per dieci minuti. La platea spazientita gridava: Zitti! zitti! e poiché il palco era di second’ordine, lo spettacolo veniva in un certo senso interrotto. Vai a farti buzzarare! gridava uno dei giocatori, Ti te se un gran cojonon! rispondeva l’altro piantandogli addosso due occhi infuriati e gridando a squarciagola. L’accento con cui era detta la parola cojonon m’è sembrato di incredibile comicità e verità. L’accesso di collera appare eccessivo e lascia tracce sempre così scarse che ho notato che, nel lasciare il palco, a nessuno dei litiganti è venuto in mente di dover rivolgere all’altro una parola amichevole. A dire il vero la collera italiana è, credo, silenziosa e contenuta, e questo è invece tutto fuori che collera.

È lo spazientirsi vivace e comico di due persone serie che si litigano un giocattolo, e sono felici di tornare bambini per un attimo.

In questo secolo bugiardo e commediante (this age of cant, dice lord Byron), un tale eccesso di franchezza e di bonarietà tra persone che sono tra le più ricche e nobili di Milano mi impressiona al punto da farmi venire voglia di stabilirmi in questo paese. La felicità è contagiosa. […]” 26.

 

Un altro straniero che scrisse su questo gioco, attribuendone, per sentito dire, la paternità a Michelangelo, fu Charles de Brosses (1709-1777), erudito e letterato francese che in una lettera inviata alla Sig.ra Cortois de Quincey mentre si trovava a Roma, scrisse: “Questo gioco proviene da Siena dove, dicono, Michelangelo lo inventasse per insegnare ai bambini a computare nei diversi modi; ed infatti, è una aritmetica perpetua”. Di seguito l’intera lettera dove, come nel reportage di Stendhal, l’autore descrive i nomi delle carte, la loro grandezza, e le usanze locali del gioco:

 

“Noto, piuttosto, che tutti i buoni romani sono umilissimi servitori del bel sesso; ognuno ha la sua bella. In qualsiasi giorno, si vedono comparire insieme alle riunioni o, al massimo, a sì breve distanza l'uno dall'altra che, all'ingresso di una persona, si può scommettere a colpo sicuro chi sarà la seguente. Noi chiamiamo un tal modo di agire le vie tracciate. Queste coppie di tortorelle si pongono poi, a due a due, lungo l'intero appartamento e vi tengono chiacchiericcio, a tutto loro agio, sino a quando non venga loro in mente di ballare una quadriglia o di giocare al tre sette, alla scopa, o alle minchiate (tarocchi); quest'ultimo è sempre il prediletto, ed ora veramente regnante. Si tratta di un gioco molto originale, sia per il gran numero di carte che vi occorrono, come per le figure che recano e per il modo con cui viene giocato. La gente mi pareva cosi intenta alla partita e così divertita che, un po' per pura curiosità e un po' per il fatto che noi forestieri di solito mal sappiamo come trascorrere il tempo in simili riunioni, mi prese l'estro di essere a mia volta iniziato ai misteri di questo gioco, misteri apparentemente più incomprensibili di quelli della nostra Bonne Déesse; ma che, in fondo, si riducevano a nulla. Da quel poco che ormai ho appreso del gioco, al quale già mi esercito sebbene spesso ai danni del mio socio, mi sembra facile ad imparare ma assai difficile a ben giocarsi. In complesso, è molto bello e almeno altrettanto serio, vivace e attraente della nostra rovescina, il più bel gioco di Francia, e assai più ricco di imprevisti. D'altra parte, essendo complicatissimo, gli manca quella bella semplicità propria alla rovescina. Mi piacerebbe portarvelo; la difficoltà sta nel trovare le carte necessarie. Si gioca in quattro, due contro due, i due soci di fronte, come nella quadriglia. Le carte, grandi e spesse due volte le nostre, sono novantasette, ossia cinquantasei nei quattro soliti colori, perchè gli italiani hanno quattro figure invece delle nostre tre, più quaranta figure a parte e numerate, più il folle, che qui chiamiamo matto, il quale, tenendo il posto dello zero, serve a rialzare il valore delle rimanenti carte. Le figure rappresentano le stelle, il sole, la luna, il papa, il demonio ed altre bizzarrie. Questo gioco proviene da Siena dove, dicono, Michelangelo lo inventasse per insegnare ai bambini a computare nei diversi modi; ed infatti, è una aritmetica perpetua. Si direbbe che il gioco sia venuto di moda a Roma solo all'epoca di Innocenzo X Pamphili, perchè il papa delle minchiate rassomiglia come una goccia d'acqua al ritratto di quel grande pontefice. Il gioco non si spinge troppo oltre e le poste non sono alte; a volte si giunge ad uno scudo o gettone, ma più comunemente al testone, moneta che vale poco più di tre delle nostre da dodici soldi; inoltre, qui non si usa pagare al gioco. Aggiungo che nelle case migliori si hanno gettoni d'avorio e di cartone e un solo mazzo di carte che mai si rinnovano anche se sudicie. Per far parere meno sporche le carte, sul retro sono interamente variegate a disegno. E' un vero spettacolo veder le donne mescolare il grosso mazzo in ottavo appoggiandolo al ventre e udire il gergo del caso, altrettanto divertente del gioco stesso; tutti ne vanno matti, uomini e donne. Queste riunioni hanno luogo, secondo un ordine prestabilito, in un determinato giorno della settimana, da una o da un'altra signora, proprio come da noi. Sono sempre molto numerose, in sale bene illuminate e di buon gusto; ma, in complesso, non troppo divertenti, specie per i forestieri dei quali i presenti non si preoccupano eccessivamente, intenti come sono a far coppia e a giocare con i propri amici. Le stesse padrone di casa, pur contro il loro dovere, adottano una simile condotta, e non sapendo ricevere, lasciano che ciascun ospite se la sbrighi da solo come meglio può. Cosicché, chi non fa coppia si raduna in gruppo intrattenendosi sulla pioggia e il bel tempo, o su altro argomento non più interessante; oppure si aggira sperduto fra i vari tavoli da gioco" 27.


Una delle maggiori personalità del tempo che si occupò di ricerche sui tarocchi fu Leopoldo Cicognara (1767-1834). In quanto storico dell’arte e amante delle carte dedicò a queste ultime una sezione della sua opera Memorie spettanti alla storia della calcografia 28. Come sappiamo, fra le diverse carte miniate italiane del sec. XV, il mazzo di scuola del Bembo di cui rimangono 16 carte custodite presso la Biblioteca Nazionale di Torino, venne danneggiato in seguito all’ incendio del 1904. In una lettera che il Cicognara inviò nel 1829 a Cesare Saluzzo (1778-1853), rettore dell’Università di Torino e membro dell’Accademia delle Scienze, il Nostro chiede il favore di ricevere informazioni sulle carte di quel mazzo a quel tempo ancora integre. In particolare, la sua richiesta fu rivolta, oltre a conoscerne le misure e il tipo di carta utilizzata, a ottenere un contorno a calco di alcune carte, e cioè “il Re di danari, il Carro tirato dai cavalli, il Papa”.


LETTERA I


Padova, li 28 ottobre 1829


"Mio chiarissimo e distinto Signore,


Stava io per terminare un mio lavoro sulle antiche carte da gioco, che danno da lungo tempo un pascolo immenso alle mie ricerche, quando da amica persona, cui sottoposi il mio lavoro, mi fu fatto notare esistere in Torino alla R. Biblioteca un mazzo di tarocchi, che possa meritare qualche pregio per la sua antichità o novità. E siccome io ho molto percorso in questa materia dovunque si trovino cose di rimarco, così non vorrei terminare il mio lavoro senza avere la notizia più precisa delle carte che sono in Torino, tanto se fossero francesi, quanto tedesche od italiane, siccome quasi vorrei lusingarmi.
Vengo io dunque a pregarla con tutta l’instanza acciò voglia essermi cortese della descrizione del mazzo, quanto alle varie sequenze, numero delle carte piccole, numero dei tarocchi ec.; e poi bramerei che in carta lucida trasparente avesse la bontà di farmi diligentemente calcare un contorno di due o tre carte figurate, come il Re di danari, il Carro tirato dai cavalli, il Papa, e una delle impronte, che forse saranno tutte uniformi, del rovescio delle carte, il quale suol essere quasi sempre ornamentale o figurato in chiaroscuro.

Io sto con impazienza attendendo dalla sua bontà questo tratto di cortesia, ed egualmente vorrei che mi si notassero le iscrizioni qualunque che si trovano sulle carte, tanto se fossero sulle figure, come su alcuna delle sequenze, o sul rovescio. Ella ben vede come nell' occorrenza io metto a profitto la di lei estrema gentilezza. Non so se queste carte siano opera di solo pennello, ovvero stampe miniate, come la più parte, e non so che provenienza aver possano: le quali cose rileverò dalle sue indicazioni, e da tutto ciò che potrà raccogliermi di storia o di tradizione vaga intorno questo mazzo.

Non è molto che io le scrissi in risposta ad una sua lettera, e non so per anche dal Cav. di Castell' Alfieri se abbia per lei ricevuto un esemplare destinatole a Firenze delle Fabbriche Venete Illustrate. Forse Ella può a quest' ora saperne qualche cosa, essendo già parecchie settimane che il Marchese Gino Capponi ne fu precisamente incaricato a Firenze.

Abbia Ella anche con questa mia premura un segno della distinta mia stima e mi onori de' suoi comandi, se mi crede capace di servirla. La prego volermi dirigere il suo riscontro in Venezia, ove mi reco a' miei quartieri d' inverno in attenzione della sua bontà" 29.


Se i Tarocchi dal punto di vista ludico erano di grande moda, lo fu anche il loro uso divinatorio. Un aspetto, quello della credulità popolare, alquanto criticato dai perbenisti e dagli uomini di scienza. 

 

Di questo ne parla L. Gattini nel suo Il Galateo Popolare del 1871 trattando di streghe e fattucchiere:

 

Ancora maliarde

 

"Sì, il mal seme delle indovine non è ancora distrutto. Nel volgo ignorante ritrovasi ancora l’avanzo di un passato che fa fremere di sdegno. Le donne sono che più vanno soggette alla malefica influenza di certe megere, le quali con visi arcigni e stupide cerimonie vanno attorno predicendo la buona o la rea ventura. Nella metà più debole del genere umano, dove è fervida la fantasia, è pur grande l’amore allo straordinario e là mette radice la superstizione. Anche in fatto di stregoneria l’arte ha fatto progressi, e col cangiar dei nomi ha pur mutato modo. Smesso l’antico apparato, lugubre ad un tempo e ridicolo, di cerchi simbolici, di luci sinistre, di voci sepolcrali, di libri magici, ora ha adottato per libro, dove sta scritto l’avvenire, un mazzo di carte da giuoco o di tarocchi. Quante non si vedono tutt’ora, buone madri di famiglia del resto, andare bene spesso a consultare l’indovina su questo o quell’affare. Alcuna volta però accade che la scienza di divinazione tradisce la sacerdotessa, ed allora le piomba addosso una tempesta che non era scritta nella combinazione dei tarocchi, come racconta il Courrier de l’Aisne, essere avvenuto in un paese di Francia in cui una sedicente indovina, vecchia dal viso arcigno, e dall’aspetto sinistro, fu, dopo avere co’ falsi oracoli che essa diceva trarre dalle carte da giuoco, ingannati tanti, costretta da un giovane risoluto, alla di cui fidanzata la vecchia megera aveva posto colle sue carte dei grilli pel capo, a palesare pubblicamente la sua malizia, le sue imposture, ed a meditare quindi sui versi:

 

Miser, chi mal oprando si confida
Che ognor star debba il maleficio occulto" 30.

 

Ritornando al gioco, occorre dire che nel Sette-Ottocento l’atteggiamento della Chiesa mutò del tutto rispetto ai secoli precedenti. Nonostante il gioco d’azzardo continuasse a essere condannato, i tarocchi furono tendenzialmente non solo tollerati, ma anche amati da moltissimi religiosi, cosa che avveniva anche nel Rinascimento, quando quel gioco era praticato persino da cardinali.

 

Certo è che dall’inizio del Settecento fino a tutto l’Ottocento i consigli matrimoniali ovviarono al veto di giocare ai tarocchi, così come imposto nei secoli precedenti con frasi di questa natura: “Non obstat modo, quòd honestati vitae suae obiicitur, eum aliquando lusisse, ut vulgo dicitur à Tarrochi & à Sbaraglino, quo casu videtur esse in peccato mortali,...” [Non osta solo il fatto che all'onestà della sua vita si contrappone che quello talvolta abbia giocato, come si chiamano comunemente, ai Tarocchi e a Sbaraglino, nel qual caso sembra trovarsi in peccato mortale,...] 31. I tarocchi non erano più le carte del diavolo e giocare con essi non era più peccato mortale. Mai caso più coerente potrebbe essere afferito al celebre detto latino “Omnia tempus habent” (Ogni cosa ha il suo tempo).

 

Il gioco dei tarocchi, seppure bello, intelligente e colto, gioco che fin dalle sue origini divenne l’intrattenimento più popolare nel mondo, è oggi pressoché dimenticato. Forse perché per praticarlo occorre possedere una mente intelligente. In un’epoca, quella odierna, in cui trionfa la cultura del nulla, che annichilisce e distoglie la nostra attenzione dal pensare, ritornare a far funzionare il cervello sarebbe più che utile alla mente. Cosa erano d’altronde i tarocchi se non un meraviglioso gioco di memoria? 32.

 

Il saggio continua con I Tarocchi in testi e poesie dell'Ottocento.


Note


1.
M. Ippolito Salviano, La Ruffiana, Comedia, Di nuovo ristampata, Venezia, Michel Bonibelli, 1595, p. 20.

2. Delle Lettere Familiari di Gio. Battista Leoni, Parte Seconda, In Venetia, Appresso Gio. Battista Ciotti Senese, al segno della Minerva, M.D.XCIII [1593].

3. Ibidem, c. 28v.

4. Ibidem, c. 29r.

5. L’EpuloneOpera Melodrammatica esposta con le Prose Morali-Critiche dal P. Francesco Fulvio Frugoni, Minimo, Lettor, Theologo, Predicatore, Consultor, e qualificatore del S. Officio, & c., Venezia, Combi, & la Noù, 1675, pp. 609-610.

6. La Guard’Infanteide. Poema Giocoso di Flaminio Filandro, In Perugia, Appresso Pietro Tomassi, 1643.

7. Si veda Tarocco sta per Matto.

8. La Guard’Infanteide, cit. nel testo, p. 149.

9. Si vedano I Tarocchi in Letteratura II IIIDel Minchionare.

10. Raccolta di Poesie Satiriche scritte nel secolo XVIII, Milano, Società Tipografica dei Classici Italiani, 1827, p. 4.

11. Poesie di Giovanni Meli, Versione dal dialetto siciliano di Giuseppe Gazzino, Volume Secondo, Don Chisciotte, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1858, p.151.
12. Ibidem, p. 268.

13. Camillo Ugoni, Della Letteratura Italiana nella Seconda Metà del sec. XVIII, Vol. II, Brescia, Nicolò Bettoni, 1821, p. 526.

14. Si veda Odi et Amo.
15. Poesie di Lorenzo Mascheroni, raccolte da’ suoi Manoscritti per Eloisio Fantoni, Firenze, Le Monnier, 1863, pp. 377-379.
16. Dialoghi del Cavaliere Vincenzo Monti, Volume Primo, Girolamo Tasso, 1841, pp. 164-165.
17. Poesie Inedite di Giuseppe Gioacchino Belli, Romano, Roma, Salviucci, 1866, pp. 64-65.
18. Prima Raccolta di Poesie e Prose Edite e Inedite di Norberto Rosa, Volume Secondo, Torino, Aless. Fontana, 1849, pp. 103-104.
19. Ibidem, p. 306.
20. Ibidem, p. 127.
21. Cfr: Stefano Stampa, Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici, Volume Primo, Milano, Hoepli, 1885, pp. 10 e 231.

22. A.A.V.V., Giornale storico della letteratura italiana, Volume 89, Loescher, 1927, p. 175.

23. Ugo Foscolo, Lettere inedite: tratte dagli autografi, con note e documenti, T. Vaccarino, 1873, p. 226.
24. F. Zanelli Quaratini (a cura), Stendhal. La Certosa di Parma, Milano, Mondadori, 2010.

25. Sull’usanza di giocare a carte nei palchi dei teatri si veda al paragrafo 'Balli di tarocchi' in I Tarocchi nelle Riviste dell'Ottocento.

26. Eleonora Carantini (a cura), La bellezza delle milanesi. Viaggiatori francesi a Milano, Palermo, Sellerio Editore, 2012, s.n.p. 

27. Gustavo Brigante Colonna Angelini (a cura), Charles de Brosses: Roma del Settecento. Dalle Lettere familiari scritte dall' Italia nel 1739-1740, Eden, 1946.
28. Prato, Giachetti, 1831.
29. Poesie Scelte di Cesare Saluzzo con alcune Lettere di Personaggi Illustri e la Vita scritta dal Cav. Professore Pier-Alessandro Paravia, Pinerolo, Giuseppe Chiantori, 1857, pp. 258-260.
30. Il Galateo Popolare compilato dal Dr. L. Gattini, IV Edizione, Torino, G. Candèletti, 1871, pp. 178- 180.
31. Giovanni Battista Ziletti, Matrimonialium Consiliorum, Primum Volumen, Venezia, Iordani Zileti, 1563, p. 154
29. Si veda a questo proposito La Storia dei Tarocchi.

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