Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

Come il 'Matto de' tarocchi' del Carducci

Ovvero dell'Italia che non si desta

 

Andrea Vitali, luglio 2017

 

 

Fratelli d’ Italia,

L’ Italia s’è desta,

Dell’elmo di Scipio

S’ è cinta la testa.

Dov’è la vittoria

Etc.

 

Incipit dell’Inno di Mameli (1847)

 

In un nostro saggio 1 abbiamo evidenziato il duplice significato dell’espressione “essere come il matto nei tarocchi”, cioè ‘di nessun valore’, seppure carta considerata di grande importanza nell'uso ludico, e nel contempo essere ‘indispensabile’. Se il Matto - ricordando che i tarocchi furono ideati come mazzo di carte da gioco - non aveva alcun potere di presa sugli altri Trionfi (Arcani Maggiori), come sottolinea Girolamo Zorli grande storico dei giochi di carte, nello stesso tempo non poteva essere catturata dalle altre carte. Si trattava insomma di un elemento fondamentale. In tal senso, allargando il concetto, 'essere come il matto de' tarocchi' poteva significare essere qualcuno di cui non si poteva fare a meno, in pratica una persona gradita che entrava ben accetto in ogni situazione 2.

 

L’espressione venne tuttavia generalmente utilizzata nei discorsi comuni con il significato ‘di nessun valore’ o come ‘qualcosa di estraneo’, che nulla aveva a che fare con certe situazioni o persone.

 

Il Carducci giocava a tarocchi dato che nell’ Ottocento era il più amato e diffuso gioco di carte, e si trovava in ottima compagnia dato che sappiamo essere innamorati dei tarocchi il Manzoni 3, il Leopardi, il Foscolo e tanti altri bei nomi della letteratura italiana del tempo.

 

Poiché in un suo componimento il Carducci riporta a proposito dell'Italia l’espressione “essere in Europa quello che è il matto nel giuoco de’ tarocchi” riteniamo interessante farne disamina, se si considera il fatto che il passo venne scritto in un momento della storia politica e sociale italiana da poter essere confrontata con la situazione attuale.

 

La sua raccolta di poesie Giambi ed Epodi pubblicata nel 1882, si manifesta apertamente quale opera polemica come già si evince dal prologo. Egli intende condannare i mali del tempo, ‘la guasta età’, in nome dei sogni giovanili traditi e della Libertà ancora da conquistare pienamente.

 

Ululerò le lugubri memorie

Che mi fasciano l’alma di dolore.

Ululerò gl’insonni accidiosi

Tedi che fuman da la guasta età,

Invidïando il rorido fulgore

De’ miei giovani sogni e i desii splendidi

De le infrante catene e gli animosi

Vostri richiami, o Gloria, o Libertà.

 

Tutto che questo mondo falso adora

Co ’l verso audace lo schiaffeggerò:

Ei mi tese le frodi in su l’aurora,

A mezzogiorno io le calpesterò.

Che se i delúbri crollano e i tempietti

Ove l’ideal vostro, o vulghi, sta,

Che importa a me? Non fo madrigaletti

Che voi mitriate d’immortalità.

 

Oh, pria ch’io giaccia, altri e più forti fulgidi

Colpi da l’arco liberar vogl’io,

E su le penne de gli ardenti strali

Mandare io voglio il vampeggiante cor.

Chi sa che su dal cielo la Musa o Dio

Non l’accolga sanando e sovra il torbido

Padule de l’oblio non gli dia l’ali

Da rivolare a gli sperati amor? 4.


Nell’opera il Carducci, oltre ad esaltare i grandi ideali di libertà, di giustizia e il disprezzo per i compromessi dell’Italia unificata, si fa paladino dell’astio verso il Papato e la Francia, sua alleata, che aveva tradito i valori di libertà conquistati attraverso la Rivoluzione.

 

Riguardo il Papato:

 

Che m’importa di preti e di tiranni?

Ei son piú vecchi de’ lor vecchi dèi.

Io maledissi al papa or son dieci anni,

Oggi co ’l papa mi concilierei.

 

Povero vecchio, chi sa non l’assaglia

Una deserta volontà d’amare!

Forse ei ripensa la sua Sinigaglia

Sì bella a specchio de l’adriaco mare.

 

Aprite il Vaticano. Io piglio a braccio

Quel di se stesso antico prigionier.

Vieni: a la libertà brindisi io faccio:

Cittadino Mastai (1), bevi un bicchier! 5.

 

(1) Giovanni Maria Mastai Ferretti (Pio IX)

 

Riguardo la Francia:

 

Vide il mondo passar le tue legioni,

O repubblica altera.

E spezzare a sé innanzi altari e troni,

Come fior la bufera:

 

Perché, su via di sangue e di tenèbre

Smarriti i figli tuoi

E mutata ad un upupa funèbre

L’aquila de gli eroi,

 

Là, ne’ colli sabini, esercitati

Dal piè de l’immortale

Storia, tu distendessi i neri agguati,

Masnadiera papale.

 

E, lui servendo che mentisce Iddio,

Francia, a le madri annose

Tu spegnessi i figliuoli et il desio

Dì lor vita a le spose,

 

E noi per te di pianto e di rossore

Macchiassimo la guancia,

Noi cresciuti al tuo libero splendore.

Noi che t’amammo, o Francia? 6.

 

A questo punto, per entrare nel vivo della nostra argomentazione occorre mettere in luce la posizione e il pensiero del Carducci sull’Italia del tempo. Il poeta scrisse i Giambi ed Epodi fra il 1867 e il 1872, periodo in cui le idee giacobine vennero accolte dal poeta teso a sostenere i nascenti governi repubblicani e il potere monarchico italiano che egli sentiva garante delle libertà popolari. Carducci era convinto che l’Italia sarebbe riuscita a unificarsi senza l’aiuto e l’intervento di potenze straniere: i signori e i cittadini, l’esercito e il popolo, la monarchia e le fazioni democratiche, avrebbero compiuto uniti tale aspirazione. Egli era turbato, come abbiamo visto, dalla presenza francese, dal malgoverno nel Mezzogiorno, dall’arresto di Garibaldi in Aspromonte e dalle disfatte di Custoza e Lissa. Tutto ciò aveva contribuito a fargli condannare la politica dei moderati.

 

Scrive il Carducci:

 

“E in quell’anno [1866] l’Italia ebbe inoculato il disonore: cioè la diffidenza e il disprezzo fremente di se stessa, il discredito e il disprezzo sogghignante delle altre nazioni. Sono acerbe parole quelle che io scrivo, lo so. Ma anche so che per un popolo che ha nome dall’Italia non è vita l’esser materialmente raccolto e su’ l rifarsi economicamente, e non avere né un’idea, né un valore politico, non rappresentare nulla, non contar nulla, essere in Europa quello che è il matto nel giuoco de’ tarocchi: peggio, essere un mendicante, non più fantastico né pittoresco, che di quando in quando sporge una nota diplomatica ai passanti sul mercato politico, e quelli ridono: essere un cameriere che chiede la mancia a quelli che si levano satolli dal famoso banchetto delle nazioni, e quasi sempre, con la scusa del mal garbo, la mancia gli è scontata in ischiaffi. Quando sarà promosso a sensale o mezzano? La gloria delle storiche città è sostenuta dai ciceroni e da gente di peggior conio. Le più belle fra esse sospirano al titolo e alla fama di locande e di postriboli dell’Europa. E la plebe contadina e cafona muore di fame, o imbestia di pellagra o di superstizione, o emigra. Oh menatela almeno a morire di gloria contro i cannoni dell’Austria o della Francia o del diavolo che vi porti!” 7.

 

Dopo venti anni dal 1866, altre critiche si levavano di condanna della politica italiana, dei suoi governanti e del Papato. Una di queste venne ‘messa in scena’, per così dire, attraverso i tarocchi: si tratta infatti di una satira dal titolo Il Nuovo Giuoco dei Tarocchi, inserito nell’Almanacco della Commedia Umana per il 1886 edito da Sanzogno. In ventidue pagine non numerate, di cui ciascuna dedicata a un Arcano Maggiore, vengono satireggiati attraverso due quartine e un’illustrazione, personaggi e situazioni politiche o sociali dell’Italia del tempo. L’identità di ciascun Arcano viene compresa attraverso i versi delle quartine.  

 

Il Bagatello venne associato ad Agostino Depretis, Primo Ministro del tempo; i versi che accompagnano la carta del Papa (Leone XIII) appaiono come una pesante accusa di stampo radicale alla ricchezza del Vaticano; la carta dell’Imperatore critica il Ministro degli Esteri Pasquale Mancini, reo del riaccostamento italiano ad Austria e Germania; l’Appeso diventa il buon contribuente oberato dalle tasse, nello specifico quelle del decimo di guerra e sul macinato. Particolarmente espressivi sono i versi che accompagnano la carta della Torre contro la politica coloniale del governo che aveva occupato la baia di Assab nel 1870 e quella di Massaua nel 1885. Versi profetici, oseremmo dire, in quanto previdero il disfacimento delle ambizioni italiane in Eritrea avvenuta appena un anno dopo a Dogali, il 25 gennaio 1887.  Di seguito i versi e le illustrazioni relativi alla Torre, al Papa e all'Appeso. 

 

 

LA TORRE

 

  Con tant’arte l’avevan fabbricata   

A base di perfidia e ipocrisia, 

           Che di supporla un giorno rovinata 
  Per lo men reputavano pazzia. 

 

Eppur non correrà lunga stagione 

            Che si vedrà cangiar questa bonaccia 
      In uragan tremendo, e il torrione 
          Di sé nemmen più lascerà la traccia.

 

                       La Torre

 

 

 IL PAPA

 

Sarebbe invero un gran testa di rapa,

     O proprio un fringuellin da paretajo,

       Chi non vedesse che in prigion il Papa

    Dentro s’è chiuso in un salvadanaio.

 

                                                                             Ivi i lor soldi gettan, veri allocchi,

                                                                                 Tutti quanti i piagnon dell’orbe intiero,

                                                                                 Ed alla barba di cotant sciocchi

                                                                                 Mena gioconda vita il prigioniero.

 

 

Il Papa

 

 

                                                                                                    L'APPESO

 

                                                                              Prima fu rosolato a fuoco lento

                                                                                 Col decimo di guerra e macinato,

                                                                                 Poi l’arrostir col cento due per cento

                                                                                 Posto sopra un guadagno immaginato.

 

                                                                              E quando delle tasse il crudo Agente

                                                                                 Quasi perfin la pelle gli ebbe preso,

                                                                                 Venne per giunta, il buon contribuente

                                                                                 Come un furfante per un piede appeso.

 

 

L'Appeso

 

 

 

 Note

 

1. Si veda I Tarocchi in Letteratura I.

2. Giuseppe Pasini, Vocabolario Italiano, e Latino ad uso delle Regie Scuole, Volume Secondo, Torino, MDCCLXXXI [1781], p. 393.

3. Del Manzoni, grande amante del gioco dei tarocchi, si ricorda in particolare un suo intervento in occasione di una partita con amici: "La sera si fece la partita di tarocco alla quale Manzoni pigliò una parte vivissima, rammentando tutti i modi di dire milanesi dei taroccanti di professione”. Giornale storico della letteratura italiana, Volumi 89-90, Torino, Loescher, 1927, p. 175.

4. Opere di Giosuè CarducciGiambi ed Epodi e Rime Nuove, Bologna, Ditta Nicola Zanichelli, MDCCCLXXXXIV [1894], p. 4.

5. Ibidem, Il Canto dell’Amore, pp. 124-125.

6. Ibidem, Per Eduardo Corazzini. Morto delle ferite ricevute nella Campagna Romana del MDCCCLXVII, p. 13.

7. Opere di Giosuè CarducciGiambi ed Epodi e Rime Nuove, Confessioni e Battaglie, Serie Terza, Roma, Casa Editrice A. Sammaruga, 1884, pp. 62-63.

 

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