Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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Il 13 nei tarocchi e nella superstizione popolare

Nella tradizione italiana

 

Andrea Vitali, dicembre 2020

 

 

Che il 17, congiunto al venerdì, sia stato considerato un numero infausto è assodato fin dal medioevo, dove l’anagramma di 17 scritto in numeri romani XVII dava VIXI, ovvero vissi, vale a dire 'non vivo più'. Poiché di venerdì morì Nostro Signore, l'unione di quel giorno della settimana con quella data fu fatta rientrare nel novero dei momenti da evitare per intraprendere qualsivoglia azione.

 

Più interessante appare invece la credenza del 13 come numero portatore di sventura.

 

Nella tradizione italiana concorrono principalmente due motivazioni: la prima, più popolare, deriva dal numero dei presenti all’Ultima Cena quando assieme a Gesù si trovarono seduti 12 Apostoli; l’altra, di derivazione più ricercata, sembrerebbe derivare dal numero dei cavalieri che presero parte alla Disfida di Barletta nel 1503. Anche se si risolse con la vittoria degli Italiani, si contarono morti e feriti, per cui quell’evento diede adito a ritenere che sarebbe potuta sorgere qualche lite laddove ci si fosse trovati in 13.

 

In riferimento a quest’ultima motivazione, l’autore dei Ragguagli sulla vita e sulle opere di Marin Sanuto, diarista e cronista vissuto a cavallo fra il XV e il XVI secolo, scrive: “La superstizione che fa temere di sedersi a tavola in numero 13 non era partecipata da Marin. Forse il risultato della sfida di Barletta fece venire quel numero alla moda in Italia” 1.

 

Il critico letterario e poeta Arturo Graf così scrisse il critico al riguardo “Voi avete senza dubbio sentito parlare, e forse letto nell' Ettore Fieramosca di Massimo d'Azeglio, della Disfida di Barletta. Furono tredici italiani che combatterono contro tredici francesi, e li vinsero bravamente. Si domanda: qual era, in questo caso, la potenza del 13? di aiutare gl'italiani a vincere, o di forzare i francesi a perdere? Chi lo sa, lo dica” 2.

 

In riferimento all’Ultima Cena assai illuminante risulta il dialogo sotto riportato dove la logica di uno dei due personaggi ribalta completamente la situazione negativa dell’essere in 13 in un convivio. Prima di riportare interamente il dialogo, vediamone i passi salienti: innanzitutto, il fatto che la Morte nei Tarocchi sia posta come numero 13 non dovrebbe spaventare più del Diavolo il cui numero è il 15; infatti non si dovrebbe temere tanto la morte quanto il Diavolo dato che questo potrebbe portare via il corpo e l’anima di qualcuno quando si è seduti in 15 a tavola. Inoltre, l’Appeso, numero 12, dovrebbe far temere maggiormente che uno dei convitati possa venire impiccato e non si comprende come mai non susciti timore di incorrere in una impiccagione quando ci si mette in viaggio il giorno 12 di qualsiasi mese.

 

Giuda - considerato universalmente il dodicesimo apostolo il cui tradimento viene ricordato attraverso la figura dell’Appeso, dodicesima carta nell’ordine dei Trionfi – viene identificato dal personaggio del dialogo come il tredicesimo nell’Ultima Cena. Ma - e qui la logica messa in campo si manifesta ferrea - il numero dipende da dove si inizia a contare e inoltre la sua impiccagione deve addebitarsi ai 30 denari ricevuti, per cui occorrerebbe considerare il numero 30 come nefasto e nel contempo il 13 come glorioso, dato che in realtà gli apostoli non furono 12 ma 13, dato che al posto di Giuda, una volta morto, venne nominato Mattia a cui si aggiunse più tardi Paolo. Infatti, Sant’Agostino chiamò Paolo “il decimoterzo Apostolo”.

 

Di seguito l’intero dialogo tratto da un Frasario Italiano 3 :

 

22. Sui pregiudizi popolari (Dialogo)

 

Matteo (superstizioso), Enrico (spregiudicato) e Adolfo (capo armonico)

 

"A. Ma pure non puoi negare che il 13 è l'emblema della morte. Di fatto, nei Tarocchi o Minchiate, il 13 figura la morte.

E. Bella ragione! A conti fatti si dovrebbe aver più paura del diavolo che della morte. Ora il diavolo nei tarocchi è il 15 perchè dunque non si teme che il diavolo porti via in corpo ed anima qualcuno, quando sono in 15 a tavola? Perchè non si teme che il diavolo ficchi la coda e le corna nei contratti e nei viaggi fatti il 15 del mese, come si teme pel 13? Inoltre il 12 nei tarocchi è l'impiccato. Io non so proprio perchè non si tema l'impiccagione da coloro che siedono a tavola in 12. Non so perchè non tema d'essere impiccato chi si mette per viaggio il 12 del mese!

A. Almeno non mi negherai che il 13 è il punto di Giuda.

E. - Il punto di Giuda dovrebb'essere il 30, perchè per 30 denari tradì il suo Maestro. Eppure il 30 non è mai stato creduto numero infame e funesto.

A. Oh! si dice il punto di Giuda perchè era il 13° a tavola nell'ultima cena.

E. Ma tutti gli Apostoli erano il 13° nè più nè meno di Giuda, secondo dove si comincia a contare. E se egli si è impiccato, non è in virtù del numero 13, ma in virtù del numero 30, cioè dei 30 denari che aveva intascato prima di essere a tavola in 13. E giacchè ci sono, dirò che appunto negli Apostoli si rende di ottimo augurio e glorioso il numero 13, contro la comune opinione degli sciocchi, i quali credono che da un Apostolo è stato infamato.

M. Oh questa poi l'è grossa!

E. Nè grossa nè piccina, ma proprio come va. Dunque dovresti sapere che gli Apostoli sono 13 nè più né meno.

M. Vuoi mostrarmi la luna nel pozzo.

E. No; ti voglio far vedere il sole in pien mezzodì. Gli Apostoli eletti da G. C. furono 12. Uno di essi si impicco pel numero 13 come dici tu, pel numero 30 come dico io e dicon tutti: in suo luogo fu eletto Mattia. Ma a questi dodici fu aggiunto S. Paolo, il quale è cosi apostolo che dicesi per antonomasia l'Apostolo. E quando un predicatore o scrittore dice semplicemente l'Apostolo, tutti sanno che è S. Paolo. Dunque sono o non sono 13?

A. Tredicissimi. E mi ricorda di aver letto a caso, aprendo il breviario di mio fratello, che S. Agostino chiama S. Paolo il decimoterzo Apostolo. Caro Matteo, mi pare che convenga o bere od affogare. Ma sai che a momenti io metto il 13 fra i numeri più gloriosi di tutto quanto l'abbaco? Sai che? Mettiamo su, o come si dice, pigliamo noi tre l'iniziativa d'una società del 13, come quella di cui ha parlato Enrico. Voglio pigliare a pigione un quartiere di 13 stanze, ogni stanza. con 13 sedie; voglio 13 posate per tavola, 13 bicchieri, 13 bottiglie, 13 botti in cantina. Voglio una vigna con 13 filari, 13 peri, 13 peschi, 13..." 4.

 

Il modo di dire bolognese nel Seicento “Cercar il tredici in disparo”, significava non accontentarsi di essere onesto, ma di cercare di ottenere qualsiasi cosa con la disonestà, come ci informa un testo dell’epoca:

 

Cercar il tredici in disparo è proverbio Bolognese, e vuol dire andar dietro al suo peggio, e non contentarsi dell’honesto. E ciò per essere in numero 13. quel numero appunto, che raccorda l’empietà del Popolo Hebreo, e l’ingratitudine di lui grande verso Iddio, doppo la sua liberatione dalla schiavitudine Egittiaca; come nel Salmo 13. di Davidde si può vedere” 5.

 

Nel Salmo 13 Davide lamenta infatti il suo stato di abbandono:

 

Salmo 13

 

Invocazione fiduciosa

 

[1] Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.

[2] Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?
Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?

[3] Fino a quando nell'anima mia proverò affanni,
tristezza nel cuore ogni momento?
Fino a quando su di me trionferà il nemico?
[4] Guarda, rispondimi, Signore mio Dio,
conserva la luce ai miei occhi,
perché non mi sorprenda il sonno della morte,

[5] perché il mio nemico non dica: "L'ho vinto!"
e non esultino i miei avversari quando vacillo.

[6] Nella tua misericordia ho confidato.
Gioisca il mio cuore nella tua salvezza
e canti al Signore, che mi ha beneficato.  

 

Nell’Ottocento, la posizione della Chiesa riguardo la superstizione che il numero 13 portasse sventura fu la seguente: se una persona era veramente convinta che il sedersi in tredici a tavola avrebbe portato alla morte di un commensale, allora tale credenza era da condannarsi e quel pensiero da considerarsi un peccato gravissimo. Inoltre, se fosse accaduta realmente una disgrazia a una di esse, ciò avrebbe significato che era stato stretto un patto con il Demonio, venendo a cadere il peccato di superstizione per un altro ancor più terribile. Tuttavia, sarebbe stato necessario valutare la provenienza sociale delle persone in quanto quelle di umile estrazione, incolte e rozze, non si rendevano conto, causa la loro ignoranza, che credere in tali cose comportasse un peccato mortale. Nell’eventualità invece che una persona fosse stata mossa solamente da una lieve credulità e senza certezza dell'evento futuro, allora avrebbe peccato ma non gravemente, perché tale sentire sarebbe derivato più da una leggerezza d’animo che da una vera presunzione del male e di un tacito patto sancito col Demonio.  

 

Quanto sopra, viene descritto dal seguente passo ricavato da un trattato di morale cristiana:

 

Trattato Quinto della Religione

 

CASI PRATICI INTORNO ALLA SUPERSTIZIONE.

 

"Caso pratico. Giovanni ricusa di sedersi a tavola, quando tredici sono gli invitati, perchè teme, che uno di essi debba morire entro il giro di quell'anno.

D. Se sia reo di grave peccato di superstizione?

R. La vana osservanza, di cui precisamente è reo il nostro Giovanni, appartiene al vizio della superstizione, di cui n'è una specie. Qui non si parla di quelle osservazioni che riguardano l'agricoltura, il taglio degli alberi, ec. essendo queste cose lecite, e non contengono veruna macchia di superstizione. Parlasi di quell'osservanza vanissima, per cui si attribuiscono, o si aspettano certi effetti da cose che non hanno con essi la menoma connessione. Di tal fatta è quella di coloro, che raccolgono le erbe nella festa di S. Giovanni Battista, credendo che raccolte in esso giorno, abbiano virtù e forza di sanare certe piaghe, o altri mali, e cose simili, e per ometterne cent'altre di questo genere, tale è quella nel caso nostro di Giovanni, il quale sedersi non vuole a mensa in un convito, perchè tredici sono gl'invitati per la vanissima persuasione o timore, che se i commensali sono tredici, e si assidono tutti ad una stessa mensa, uno di essi debba morire entro d’un anno.

Imperciocchè tutte queste cose sono affatto vane, né hanno veruna connessione coll'effetto, che se ne aspetta, nè veruna forza di generarlo; nelle quali conseguentemente il Diavolo, in forza di qualche patto almeno implicito, si frammischia.

D. Ma sarà dunque reo di grave peccato di superstizione?

R. Che secondo alcuni, fra quali il Lessio de superstitione Lib. 2, cap. 47, dub. 7, n. 43, ed il Saurez, si dee esaminare se Giovanni venga mosso in tal caso a temere della morte da un fermo assenso dell'intelletto, oppure soltanto da una leggiera credulità; a misura dunque di questa cognizione dovrà giudicarsi della reità di chi si lascia muovere da tal timore. Se da un fermo assenso Giovanni viene mosso a temere della morte, egli è reo di peccato gravissimo di superstizione; imperciocchè nè la mensa, o il convito, nè il numero dei commensali o convitati sono atti a significare, e molto meno a cagionare la morte di uno dei tredici assisi alla mensa, nè vi ha intorno a ciò veruna divina o rivelazione, o istituzione, o tradizione.

Quindi se temasi perciò la morte con giudizio fermo e con certezza, ciò non può accadere se non in forza di un patto tacitamente fatto col Demonio, e conseguentemente senza un gravissimo peccato di saperstizione. Ma se venga Giovanni mosso solamente da una lieve credulità, e senza certezza dell'evento futuro, pecca bensì, una non gravemente, perchè ciò avviene piuttosto per una leggerezza di animo di quello che per una vera presunzione del male e di un patto tacito fatto col Demonio. Io direi piuttosto, che nelle persone massimamente rozze, ed idiote scusar potesse da peccato mortale l'ignoranza, posto che mai siano state avvertite a desistere da siffatte vane osservanze, e della tacita invocazione del Demonio, che in esse si frammischia.

Quello si è detto nel caso di Giovanni, dee applicarsi a mille altre vanissime osservanze. Peccano dunque di superstizione quelle persone, le quali credono cosa infausta e di cattivo augurio, se nell'uscire di casa s’incontrano in un cane , o in un gatto: che tornano in casa, se dell'atto di andarsene inciampano e urtano col piede in una pietra, o danno del capo nella porta: tornano a coricarsi, se taluno, nel mentre si adattano i calzari, starnuta: e se trovano le vesti rosecchiate dai topi, hanno più travaglio pel futuro male cui temono, che dolore del presente danno. S. Agostino nel lib. 2, de Doctr. Crist. cap. 20, dopo aver parlato e condannato fra moltissime altre superstiziose osservanze ancor quest'ultima, la deride lepidamente con una risposta di Catone, il quale consultato da certo uomo, al quale erano state dai sorci rose le calzette, ed era perciò in timore di qualche grave sinistro, rispose: non esse illud monstrum, sed vere monstrum habendum fore, si sorices a caligis roderentur" 6.

 

Riportiamo ora quanto scrisse sulla credenza nefasta del numero 13 lo storico Arturo Graf. Si tratta di una lettura piacevolissima che ci illumina sulle strategie adottate per non attribuire il numero 13 alle più diverse situazioni, come avvenne ad esempio al Teatro Regio di Torino dove al palco a cui doveva corrispondere quel numero venne assegnato un 12 bis, oltre a portare esempi di avvenimenti nefasti correlati al numero 13 assieme ad altri decisamente fortunati.

 

Due Superstizioni

 

   “Avete veduto quanto sia sciocca la superstizione del venerdì; ma non crediate non ce ne sia qualcuna più sciocca ancora. La sciocchezza della superstizione è come certi abissi dell'oceano non se ne trova il fondo; e più si scende, più c'è da scendere. È proprio il caso di dir coi Francesi: Quand il n'y en a plus, il y en a encore.

   Una superstizione più balorda di quella del venerdì è la superstizione del numero tredici; più balorda e più impacciosa, perchè, almeno, il venerdi si sa che capita ogni sette giorni, mentre il numero tredici puó balzar fuori quando uno meno se l'aspetta, di mezzo alle mille occorrenze e faccende della vita.

Se voi giraste per certe città, che io conosco, vedreste che le case le quali dovrebbero recar sulla porta il numero tredici, vi hanno invece, a seconda del sistema di numerazione, un 11 bis, o un 12 bis. Andate, qui in Torino, al nostro Teatro Regio, e vedrete che i palchi cui toccherebbe il numero 13 sono invece segnati con un bel 12 bis.

E perchè tutto questo?

   Badate. Se la superstizione ha sempre torto, qualche volta almeno la si può dar l'aria di chi ha ragione; oppure il suo torto è tale da meritar qualche scusa. In tutti i tempi, in tutti i paesi, certe proprietà dei numeri, che riescono veramente misteriose ed inesplicabili a chi non è un po' addentro nei segreti delle matematiche, hanno dato argomento a varie credenze superstiziose e a pratiche di magia. Pei matematici di professione quelle proprietà sono al tutto naturali ed innocue; ma coloro che non son matematici meritano qualche indulgenza, se, non intendendole, s'immaginano ci sia sotto qualche cosa di grosso. L'ignoranza loro è la loro scusa. Ma non è questo il caso del numero tredici. Nella superstizione del numero tredici non si mette innanzi nessuna proprietà misteriosa del numero; ma si tira in campo l'ultima cena fatta da Cristo cogli Apostoli, e si ricorda il tradimento e la fine disperata di Giuda. A quella cena furono appunto in tredici, e nel numero tredici, che non aveva colpa veruna, Giuda trasfonde tutta la diabolica perversità dell'anima sua. Per colpa di Giuda il numero tredici diventa un numero insidioso e maligno, da cui bisogna guardarsi appunto come da un traditore. Non pensano che la presenza di Gesù avrebbe dovuto piuttosto santificarlo quel numero, che la bontà del maestro era da più che la malvagità del discepolo.

   Quando una superstizione è accreditata e diffusa, c'è chi ci crede più e chi ci crede meno. Molti si contentan di credere che il numero tredici è nocivo a tavola, che i commensali non debbono mai essere in quel numero, e dicono che, se non si osserva questo precetto, uno dei tredici muore entro l'anno. Altri vanno più in là, e sono forse più logici. Per loro il numero tredici è sempre cattivo, sotto qualunque forma, in qualunque condizione si presenti.

Io conobbi già un uomo dabbene che aveva del numero tredici una cosi grossa paura che non avrebbe potuto averla maggiore del diavolo. Il tredici del mese, o stava tutto il giorno a letto, oppure si chiudeva in casa, come una lumaca nel guscio. Per tutto l'oro del mondo non avrebbe presa in piazza una vettura segnata col numero tredici. Per un regno non avrebbe comperata una cosa di cui gli si chiedessero in pagamento tredici lire: piuttosto andava in un'altra bottega a pagarla magari quattordici o venti. Egli abitava in certa via, in una casa segnata col numero 15. Una porta più giù c'era il numero 13, e questa vicinanza non lasciava di dargli qualche sospetto. Ma gli toccò di peggio. Un bel giorno il municipio ci manda i suoi lavoratori, fa buttar giù due case, fa costruire sul luogo loro un mercato, e la porta del nostro superstizioso non ha più il numero 15, ma il numero 13. Il pover' uomo, che aveva una locazione lunga, fu per ispiritarne; ma tanto si maneggiò che riuscì a disfare il contratto, e se ne andò via. L'ultima che fece fu questa. Egli aveva lungamente sollecitato un posto lucroso e comodo in una pubblica amministrazione. Batti e picchia gli fu concesso, ed eccolo felice. Bugiarda felicità! Giunge il decreto tanto sospirato e qual è la prima cosa ch' ei vede? apriti cielo! il decreto era stato firmato il 13 del mese. Ringraziò e non volle più saperne. Dopo questa, finì come doveva finire; fini matto all'ospedale, e, per una giusta ironia del caso, all'ospedale fu messo a registro sotto il numero 13.

Se i superstiziosi ragionassero un pochino vedrebbero che al lotto tanto si vince (o, per dir meglio, si perde) col 13, come con qualsiasi altro numero. Voi avete senza dubbio sentito parlare, e forse letto nell' Ettore Fieramosca di Massimo d'Azeglio, della Disfida di Barletta. Furono tredici italiani che combatterono contro tredici francesi, e li vinsero bravamente. Si domanda: qual era, in questo caso, la potenza del 13? di aiutare gl'italiani a vincere, o di forzare i francesi a perdere? Chi lo sa, lo dica.

Io so di gente a cui questo misero numero 13 fece (senza volerlo, veh!) di molto bene. Chi direbbe che un povero diavolo potè in grazia sua campar dalla morte? Ecco il fatto. Circa un secolo e mezzo fa, una notte, sulla spianata del palazzo reale di Windsor in Inghilterra, gli ufficiali di ronda sorpresero una sentinella addormentata. Il caso sarebbe grave anche ora; a quei tempi era gravissimo. Il tribunale di guerra, informato della cosa, si aduna, esamina alla lesta, discute in furia, e, senza tante cerimonie, condanna il colpevole alla pena di morte. Ma il povero condannato non vuol lasciarsi ammazzare cosi per le spiccie. Non è vero che fosse addormentato all'ora di mezzanotte, come lo accusano; era anzi desto, destissimo. Tanto è vero ch'era desto che, tenendo gli orecchi bene aperti per accorgersi, se mai, di qualche romore sospetto, udi la grossa campana della torre di Westminster sonare tredici tocchi invece di dodici. E i giudici a ridere. Come mai può un oriuolo sonar tredici ore, quando deve sonarne dodici, e quale oriuolo al mondo suona tredici ore? Ma non c'era niente da ridere. Si trovarono altre persone che avevano udito a quel medesimo modo tredici tocchi, si trovò che c'era un guasto negl’ingegni dell'oriuolo, e un bravo professor di meccanica spiegò com'era andato il fatto. Bisognò cedere all'evidenza e il buon soldato fu salvo in grazia dei tredici tocchi che aveva uditi e contati” 7.

 

Per concludere, una valutazione sulla superstizione del 13 come portatore di sventura di San Carlo Borromeo. Accanto alla sua origine, ritenuta dal Santo derivare dalla presenza della Morte quale numero 13 nei tarocchi, viene da lui evidenziato come tale credenza fosse maggiormente tenuta in considerazione più dalle donne che dagli uomini, a causa del loro temperamento:

 

"Non altro rimane in oggi a bramarsi, se non che sia tolto l'orrore, che comunemente si ha dall' essere a tavola in numero di 13., riputandosi, che uno della Compagnia debba dentro l'anno morire, il che potrebbe peravventura essere derivato dal giuoco detto del Tarrocco, ove nella carta 13. È dipinta la morte.  Simili sono lo spargimento del saleper la tavola e l’accidentale positura sopra la mensa del coltello, forchetta e cucchiajo in forma di croce, cose tutte di pessimo augurio principalmente appresso le donne, le quali, secondo il dotto riflesso di Martino di Arles nel suo libro de Superstitionibus edizione di Roma 1559., alle superstiziose follie sono più inclinate degli uomini, e perchè queste sono più credule; e per la flessibilità del loro temperamento più atte a ricevere le impressioni delle cose a loro manifestate, e perchè ancora sogliono essere più proclivi alla loquacità, onde più facilmente s' inducono a comunicare quel, che sanno, alle loro pari" 8.

 

Note

 

1. Rawdon Lubbok Brown, Ragguagli sulla vita e sulle opere di Marin Sanuto, intitolati dall'amicizia di uno straniero [R.L. Brown] al nobile J.V. Foscarini, Venezia, Nella Tipografia di Alvisopoli, MDCCCXXXVII [1837], p. 152.

2. Letture per le Giovinette, Periodico Mensile della Biblioteca dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, Volume Quarto, Fascicolo Primo, Torino, Amministrazione [Tip. G. Derossi], 1885, p. 89.

3. Frasario Italiano ossia Raccolta e Spiegazione di Voci, Frasi Eleganti e Proverbi con Appendice di Componimenti Varii. Pubblicato per cura di A. e C., Seconda Edizione, Firenze, Milano, Roma e Torino presso G. Paravia, 1881.

4. Ibidem, pp. 99-100.

5. Cronoprostasi Felsinea, Overo Le Saturnali Vindicie del Parlar Bolognese, e Lombardo, Dove le origini erudite di molte voci, e forme di dire di lui proprie si svelano da ben fondate ragioni, ed autorità valevoli approvate. E con chiudesi, che quell'istesso Idioma non deve posporsi à qualunque altro d’Italia più celebrato, Discorso di Ovidio Mont’Albani, In Bologna, Per Giacomo Monti, 1653, p. 34.

6. Paolo Sperone, Morale teorico-pratica che contiene tutte le interrogazioni e risposte che far soglionsi a chi si presenta ad ascoltare le sacramentali confessioni ed a cura d'anime con i casi pratici applicabili alle materie morali cavate dai Sacri Concilj, Santi Padri, Sacri Teologi, Volume II, Milano, Per G. Truffi e G., MDCCCXXXI [1831], pp. 121-123.

7. Letture per le Giovinette, cit., pp. 88-89.

8. Sentimenti di S. Carlo Borromeo intorno agli Spettacoli, In Bergamo, Appresso Pietro Lancellotti, MDCCLIX [1759], p. 185.

 

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