Saggi Iconologici sui Trionfi di Andrea Vitali

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Vino e Simbolo

Sole, sangue, fuoco. Note per una storia del vino come simbolo

 

di Franco Cardini

 
Il seguente saggio del Prof. Cardini, socio ad honorem dell'Associazione Le Tarot,  fu inserito nel catalogo della mostra La Vite e il Vino. Giochi di Carta e Carte da Gioco, promossa dalla Fondazione Longarotti di Torgiano e allestita dall'Associazione Le Tarot  presso l'ex Oratorio di Sant'Antonio.


Oggi c’è chi osa calunniarlo - provocherebbe danni cerebrali irreversibili, sarebbe una minaccia per il fegato - e chi non si vergogna di proporgli orridi sostituti e disgustosi succedanei. Ma si tratta di voci alimentate da un’irresponsabile ignoranza, da una pietosa miseria intellettuale, da una lamentevole carenza d’identità.

 

Noialtri mediterranei, al vino - grande ispiratore di poeti, da Omero a Omar Kayyam (che, pure, era musulmano) - non rinunzieremo mai. Bevanda preziosa, alimento insostituibile, gioia dei forti e sollievo degli afflitti, il vino è vita: il sole, il sangue, il fuoco hanno i suoi colori e ne sono simboli; ed esso è simbolo per loro. Che cosa mai sarebbe la filosofia, senza il vino che trionfa nel Simposio di Platone? Che cosa la fede, senza il frutto della vite consacrato e mutato nel sangue di Dio?

 

Questi simboli, questi miti (chiamateli pure così, se volete) sono eterni e profondi. Nella loro più intima struttura sono anche universali, per quanto la vite e il suo frutto - oggi coltivata 1’una e fermentato 1’altro anche nel nuovo e nel Nuovissimo Mondo e nell’emisfero australe, dall’America all’Africa meridionale all’Australia - siano originariamente legati in maniera inestricabile al nostro Mediterraneo.

 

 Un’ambivalenza non solo simbolica

 

Per noi europei, il vino è il simbolo forte e primario delle radici della nostra stessa identità, connesso com’è alla Bibbia e al cristianesimo da una parte, a Omero, a Platone, a Dioniso e dunque alla cultura ellenica dall’altra.

 

Un caro vecchio amico, un robusto e sollecito consolatore. Ma attenzione, anche un dono terribile. Il cieco Polifemo e il decapitato Oloferne stanno là in agguato, ostentando le loro tremende mutilazioni, ad ammonirci che sfidare il sangue della terra è pericoloso e che la sua forza può essere distruttrice, letale. Lo sa bene Penteo, lo sventurato re di Tebe dilaniato dalle sacerdotesse di Dioniso nelle Baccanti di Euripide; lo sa Orfeo, figlio della Tracia dalla cui terra nascono uve generose, anch’egli smembrato.

 

Come la lancia di Achille che poteva ferire e risanare, anche il vino possiede un’arcana forza polarizzante, una temibile ambiguità: può liberare (e “Liberatore” è uno degli epiteti di Dioniso) e condurre all’impotenza o alla follia, può rinvigorire e toglier le forze, può donare la parola e perfino la poesia e può condannare all’afasia, può infonder coraggio e dignità e ridurre all’abiezione animalesca.

 

Cerchiamo di alzare, in qualche modo, il velo su questo mistero.

 

La parola, anzitutto. Il greco oinos sembra rinviare alla voce sanscrita vyana-m, “attorcigliare”, con allusione ai tralci della vite; ma non senza rapporto con il semitico ‘ain (“fonte”, “liquido”, “acqua”) e con l’accadico inum che richiama l’idea dello zampillare, della sorgente.

 

La vinificazione è arte antica. Fosse scavate in terra e impermeabilizzate con argilla adatte a pigiare l’uva insieme con varie bacche – un sistema che in area caucasica si è mantenuto fino al secolo scorso - erano usate fino dal neolitico, mentre pitture funerarie egizie del IV millennio a.C. testimoniano pratiche di pigiatura e fermentatura già avanzate. L’archeologia attesta un’antica produzione vinicola nell’Armenia centrale e colpisce il fatto che Noè, secondo il racconto biblico, s’inebri all’indomani di quel diluvio che secondo la tradizione aveva trascinato la sua arca fin sul monte Ararat, appunto in Armenia.

 

Il tessuto etimologico dei termini “vino” e “vite” presenta un intrecciarsi di forme semitiche e indoeuropee: il che farebbe pensare a un radicamento - se non proprio a un’origine - delle pratiche vinificatorie in quell’area siroanatolica che appare come il territorio nel quale popoli indoeuropei e popoli semiti si sono incontrati con speciale intensità. Il mito della provenienza di Dioniso e del suo culto dalla profondità del subcontinente indiano e del suo radicarsi nell’altopiano anatolico prima di partire alla conquista della Grecia con le vicende richiamate, fra gli altri, da Euripide, sembrerebbe adattarsi con molta coerenza alle linee migratorie degli indoeuropei all’inizio del II millennio a.C. La vite selvatica abbondava comunque fra Ponto e Armenia, e da lì sembra originaria.

 

Un’antica tradizione mediterranea e vicino-orientale, forse più diffusa di quanto non paia dalle nostre informazioni, collega il vino sia alle feste agricole sia a solennità cultuali legate alla fecondità e quindi ai defunti. Liquido vitale, il vino veniva libato, cioè versato al suolo in onore dei defunti oppure serviva per spengere la pira sul quale i cadaveri erano stati cremati. Nei Persiani, Eschilo attesta che il vino, con l’aggiunta di acqua, olio e miele, serviva a rinvigorire il morto nella sua dimora d’oltretomba; anche etruschi e romani associavano vino e libagione al culto funebre.

 

Tutto ciò, forse, ha a che fare con un mitema diffuso in area mediterranea: quello della “sete del morto”, adombrato nella parabola evangelica del povero Lazzaro e del ricco Epulone e studiato anche da Mircea Eliade. Tale era un tema a lungo sopravvissuto, sia pur oggetto d’un processo di folklorizzazione, anche dopo la cristianizzazione. In una novella toscana del Quattrocento, presente nelle Facetie, protagonista delle quali è un noto personaggio dell’entourage di casa Medici, il Piovano Arlotto, si narra dell’anima di un defunto illustre, l’umanista Leonardo Bruni, cancelliere della Repubblica Fiorentina, che si presenta al sagace sacerdote assetato e affannato perché nessuno gli offre neppure un bicchiere di vino.

 

Quanto al carattere di Dioniso come dio “della vite” e “del vino”, esso è stato collegato a un uso originario dei pampini della vite come surrogati dell’edera, primitivo attributo d’un Signore della Vegetazione. Insicura la presenza del suo culto nella tradizione omerica: mentre crebbe la sua influenza fra VI e V secolo nell’ambito di culti che erano in rapporto con la vegetazione, quindi da una parte con la fecondità, dall’altra con il mondo dei morti e del sottoterra e pertanto con la divinazione e la profezia, che alla visita in quel mondo si collegava.

 

Fu quest’aspetto orgiastico e sciamanico del culto dionisiaco (dalla filologia romantica contrapposto alla composta e razionale solarità di Apollo) a colpire gli antichi greci e più tardi i romani e a determinare, sul nascere, ostacoli alla sua diffusione. I greci usavano consumare un vino denso, forte, addizionato di resina (come il retzjna attuale), che veniva mischiato ad abbondante acqua in genere tiepida (in un rapporto tra vino e acqua di 1 / 4 o addirittura 1 / 8). La bipolarità del vino è segnalata anche dai suoi più fedeli ed entusiastici adepti, come il poeta Alceo, che dichiara che il dio lo concesse all’uomo per dimenticare gli affanni liberando la mente, ma denunzia il pericolo di lasciarsene incatenare.

 

Non diversamente un testo proveniente da un’altra area di grandi produttori e consumatori di vino, la Persia, lo zoroastriano Datistan i Menoke Khrat, avverte che il vino può evidenziare tutte le più segrete qualità di chi ne beve, le buone come le cattive.

 

Ed ecco la grande verità iniziatica: il vino è una bevanda arcana, che può essere usato soltanto con cura e discernimento. Dioniso è un dio della vegetazione selvaggia che insegna però come imbrigliare la natura: e la coltura della vite è, nel senso pieno e profondo di questa parola, una “cultura”. Plinio narra che Androchide, scrivendo ad  Alessandro per esortarlo a frenare la sua intemperanza, chiamò il vino “sangue della terra”. La medicina greca e quindi ellenistica si chinò più volte sul mistero costituito dal frutto della vite. Secondo il Problema XXX attribuito ad Aristotele esso, se assunto in quantità eccessiva, produce effetti che fanno somigliare il bevitore smodato al malinconico: data la sua natura calda e umida, simile appunto al sangue (l’umore che, tra gli elementi empedoclei, è imparentato col fuoco e con l’acqua) esso genera d’altronde aria, al pari della bile nera.

 

Sacro a Dioniso, il vino è caro anche ad Afrodite, e difatti i melanconici - affetti da un eccesso di bile nera - sono lussuriosi. Sostanza nella quale si mischiano il fuoco che brucia e l’acqua che disseta, la rossa bevanda è medicina ma anche - e perciò stesso - veleno, eleva fino agli dèi e muta in bestia. Teofrasto, che ne ha parlato a lungo nella Storia delle piante e anche nel trattato Il fuoco, sottolinea la sua natura viva a ignea: fermentando cresce e si muove, gettato sulle fiamme le ravviva. Berne, è rischioso anche per quello: il vino akratos, puro, non mischiato, spetta al dio: gli uomini lo bevono misto ad acqua nel cratere, senza mai dimenticare la sua natura sovrumana. Alla fine dell’inverno, nelle città ioniche, le Antesterie erano le feste dei fiori, del vino nuovo appena spillato e dei morti che potevano apparire, temporaneamente liberi dalla loro malinconica prigione ctonia. Il fatto che il vino nuovo cominciasse a scorrere, fra i greci, in primavera, dipendeva dai loro metodi di vinificazione, differenti dai nostri: non si facevano fermentare le vinacce e si aspettava la fine dell’inverno, quando la fermentazione cessava per il freddo.

 

 Vino rosso-porpora

 

La natura divina del frutto della vite si riflette nel suo aspetto esteriore, nel suo colore rosso cupo, di fuoco e di sangue. E questo ci conduce a una sua versione cromatica e tintoria: la porpora.


Ancor prima di Newton e di Goethe, che hanno portato i colori al centro della meditazione intellettuale della cultura occidentale, l’arte e la scienza della decifrazione del valore simbolico dei colori era ben nota: e invadeva la teologia, la liturgia, l’alchimia, con infiniti riflessi sul piano pratico, tecnologico e psicologico. Oggi, grazie soprattutto alle ricerche di Michel Pastoureau, il colore ha una sua storia e ci si sta movendo verso la definizione scientifica di una nuova disciplina, la cromoantropologia. Il valore dei colori e la sensibilità nei loro confronti varia difatti in modo profondo nelle differenti civiltà e conosce una vorticosa dinamica all’interno della nostra. Fra tutti i colori, il più misterioso, il più ambiguo e il più denso di valori simbolici è il porpora: che è anche il meno facilmente definibile, situato in una gamma cromatica che oscilla fra il rosso cupo, il violetto, l’azzurro profondo e il bruno-prugna. Nel caso che l’azzurro prevalga, il tono violaceo che ne deriva è piuttosto quello del giacinto, cromaticamente e simbolicamente molto vicino alla porpora. In effetti, una delle caratteristiche delle tinture purpuree è la loro cangiabilità alla luce, la loro iridescenza. Anche per questo il color porpora si caratterizza per la densità e la polivalenza dei suoi significati simbolici.

 

Il suo primo dato caratterizzante è il rapporto col profondo: profondità marine (il murice dal quale è estratto), profondità biologiche le quali rinviano al colore del sangue e degli organi vitali interni. Seguendo la psicologa Marie Bonaparte, lo studioso dei simboli primordiali Gaston Bachelard ha riletto il simbolismo delle acque profonde in Poe e in Gogol. L’acqua si connette col verde e il violetto, “colori d’abisso”; è collegata alla notte e alla morte, alle tenebre terrifiche e materne. L’etimologia conferma i dati emergenti dalla ricerca psicologica: in greco, la parola porphyra che indica il colore e il murice da cui esso viene estratto sembra provenire dal medio-babilonese, ma è voce recente risultante dalla confusione col verbo porphyro, già omerico, che indica il gonfiar e l’agitarsi del mare come del cuore inquieto e l’erompere violento tanto del sangue che sgorga dalla ferita quanto del fuoco. “Purpureo” è, nella poesia greca, il mare profondo; purpureo il vino che sconvolge ed eccita i sensi (il “mare colore del vino”); purpurea anche la morte, connessa col sangue che sgorga e col mare del nulla in cui ci si immerge. Si dice che l’imperatrice Teodora esclamasse, in un momento di pericolo: “la porpora è uno splendido sudario”; e Claudel immagina la fiamma che avvolge Giovanna d’Arco al pari d’un manto regale.

 

Colorante ricavato dalla secrezione rosso-violacea dei molluschi gasteropodi appartenenti ai generi Purpura e Murex, la porpora servì per la tintura di tessuti pregiati, soprattutto di lana ma anche di bisso (più tardi, di seta). L’avvio di tale tecnica di tintura pare doversi agli antichi fenici, e celebre era difatti la “porpora di Tiro”, ma la si attribuisce anche ai cretesi. Tale tecnica prese inizio dal XVII secolo circa. Plinio il Vecchio ci ha informato in modo preciso circa le fasi di estrazione del colore dalle conchiglie e di preparazione della tintura, segnalando come il rosso violento (quello della porpora detta oxyblatta o tyria) e il violaceo (quello della porpora hyacinta o hiantina) le tonalità più pregiate. Salomone usò la porpora per il velo del Sancta Sanctorum (il devir) del Tempio: i colori delle vesti dei sacerdoti d’Israele erano la porpora, il giacinto e lo scarlatto (a parte il bianco, che distingueva la pura veste di bisso del Gran Sacerdote quando, una volta all’anno, egli entrava nel devir). Colore simbolico rinviante alle forze della verità e della giustizia, la porpora poteva d’altronde – come si vede in molti passi della Bibbia – rappresentare per rovesciamento anche il contrario: porpora, giacinto e scarlatto potevano presentarsi anche come colori negativi e demonici.

 

Dal Vicino Oriente l’uso della porpora come colore delle vesti di nobili e di regnanti - prediletto specie nella Persia achemenide, gran produttrice anche di cremisi (estratto da un insetto - dagli arabi detto appunto kermes - che infesta la Quercus coccifera) - si diffuse in Grecia, in Egitto e a Roma dove i magistrati portavano una toga decorata con liste (clavi) color porpora, considerato colore regale fin dal tempo dell’antica monarchia.

La veste "rutilante" offerta a Gesù durante la Sua passione (che forse era comunque un sagum, un mantello militare rosso, tinto non con la porpora, ma con lo scarlatto ottenuto dal kermes) alludeva evidentemente al ruolo di rex unius diei che i soldati romani Gli stavano facendo giocare - non solo in quanto condannato a morte, ma anche con allusione al titolo di rex Iudaeorum -: e appartiene comunque a un tempo nel quale la porpora era ormai già usata come attributo degli imperatori. Questi l’avevano adottata - in seguito alla predilezione che le aveva mostrato Cesare - in quanto già segno orientale ed ellenistico di regalità, ma anche perché il color rosso si associava al carattere vittorioso e solare dell’imperator cioè - etimologicamente - del comandante vittorioso cui era stato decretato il trionfo e che, durante la cerimonia, ostentava il volto dipinto di rosso. Osteggiata dall’austero Tiberio, la porpora divenne in seguito attributo principale degli imperatori che, a partire da Nerone, limitarono con dure leggi suntuarie l’uso di tale tintura al di fuori dei pubblici uffici. Sotto Alessandro Severo, la porpora divenne monopolio di stato. Il rito dell’adoratio purpurae, cioè del bacio a un lembo della porpora imperiale, è attestato dal IV secolo. L’uso della porpora come colore riservato agli imperatori per la loro lunga tunica, il divitision, o per la clamide, oppure ai funzionari di Stato per i clavi ben determinati in numero e larghezza, è attestato dall’appellativo di sacer, che il colore di porpora riceve nel Codice teodosiano e dalle severe norme protezionistiche del Codice di Giustiniano.

Il privilegio dell’uso della porpora venne gelosamente custodito dal rigoroso cerimoniale dei sovrani bizantini. Ciò anche perché intanto il cristianesimo aveva impresso al colore della porpora un altro, ben più profondo e intenso significato. Un fine studioso di quest’argomento, lo storico Antonio Carile, ha ricordato come uno degli Apophtegmata Patrum tracci un rapporto fra il Corpo del Cristo crocifisso, l’eucaristia in quanto Sangue divino e la porpora imperiale. L’arte bizantina riserva difatti il colore della porpora per dipingere la tunica del Cristo, il maphorion della Vergine, le vesti dei santi.

 

Nella Chiesa romana si usò e si usa il rosso-porpora come attributo della dignità cardinalizia sia in quanto si collegava il prelato "incardinato" nella comunità ecclesiale dell’Urbe compartecipe della dignità imperiale e senatoriale dalla porpora rappresentata, sia con specifico riferimento al sangue del Cristo e quindi alla disposizione al martirio.

 

 Sacre libagioni

 

Passando dal vino al suo colore, e da questo alla porpora, siamo giunti sino al sacrificio dell’Ultima Cena, profondamente collegato al rito ebraico del seder, quindi alla rievocazione del “passaggio” dell’Angelo e del liberatorio esodo dall’Egitto. Le rituali coppe di vino consumate dagli ebrei nella cena del primo giorno del passover radicano d’altronde il rito mosaico in un contesto biblico profondo, che parte dall’ebrezza di Noè - un “agricoltore” che piantando la sua vigna aveva richiamato un’attività che il Dio d’Israele, come aveva mostrato a Caino, non gradiva - per snodarsi, al pari che nella cultura greca, su un sentiero ricco di paradossi.

Il vino è la gioia del compimento d’amore nel Cantico dei Cantici, è la benedizione della coppa che trabocca, ma è anche l’amaro calice dell’ira di Dio. Nel grande commento medievale al Genesi detto Bereshit Rabbà, compendio della più intensa sapienza ebraica, fu il demonio Shemadon a insegnar a Noè a piantare la vigna (anche se mise in guardia il patriarca contro l’abuso della bevanda che ne sarebbe scaturita), e il vino causò la dispersione del popolo eletto. Torna anche qui, nella cultura ebraica non meno che nella greca, la potente allusione alla bipolarità del vino. Uno splendido trattato esegetico medievale, lo Zohar, discute se la vigna provenga o no dal giardino dell’Eden e presenta l’ebrietà di Noè in termini mistici, come il risultato di un’indagine sul mistero del peccato originale così intensa e profonda da indurre nel patriarca una temporanea perdita estatica della ragione.

 

La potenza del vino doveva quindi, per sua stessa natura, trasformarlo in oggetto di tabù. Il culto di Cibele contemplava la periodica astinenza dal vino, dai cereali, dai rapporti sessuali. Nel mondo ebraico il vino - oggetto di un’eccezione nei riti pasquali, nei quali cibi e bevande fermentate sono proibiti - e la stessa uva erano interdetti ai “nazirei”, quegli uomini che fin dal ventre materno si dicevano legati a uno speciale voto di servizio a Dio e che in simbolo esteriore di esso si astenevano dal taglio dei capelli; al divieto di bere vino, salvo per motivi cultuali, sottostavano esseni e qumraniti; interdizioni del genere erano conosciute presso alcune sette cristiane, come gli encratiti; l’Islam vieta l’uso del vino ch’era corrente presso le genti arabe del tempo del Profeta ma che per questo provocava (non meno che tra i primi cristiani, come attesta lo stesso Paolo di Tarso) errori nella recitazione della preghiera. Il Corano, peraltro, non vieta esplicitamente né il vino d’uva, nè quello di dattero (sure II,19 e XVI,67): ma la sua proibizione deriva da un hadith che dovrebbe quindi valere solo per i sunniti, mentre anche gli sciiti la condividono; d’altra parte, la scuola hanafita non riconosce haram, proibiti, i liquori differenti dal vino.

 

Ma è il cristianesimo che ha conferito al vino una dignità sacrale non paragonabile a quelle proprie di nessun altro sistema religioso. Che l’uso eucaristico cristiano del vino sia una rielaborazione del kiddush ebraico, la santificazione del sabato e delle altre feste anche mediante l’uso di una bevuta comunitaria di vino dalla stessa coppa (un rito di aggregazione e di pace, privo peraltro di valore sacramentale) è cosa sicura. Tuttavia il rito cristiano della cena, e poi la sua elaborazione sacramentale in termini eucaristici, resta tipicamente cristiano. Su ciò è necessario riflettere con attenzione. Il simbolo è un segno che rimanda a un’altra cosa: alla realtà simbolizzata. Ma i modi e i metodi di questo rinvio possono essere molteplici. Spesso, la sintassi allusiva sulla base della quale si costruisce un simbolo ha bisogno d’una chiave interpretativa per essere intesa. E non è detto che la comprensione valga per tutti. Vi sono simboli che aiutano a comprendere, altri che nascondono e che quindi necessitano - per esser capiti -  di una iniziazione.

 

Il cristianesimo è la religione di un Uomo, il Cristo. Si è cristiani perché “si è del Cristo”: san Paolo l’ha detto con chiarezza. E il Cristo è morto sulla croce: una morte infamante per i secoli e le culture nei e nelle quali la nuova fede ha mosso i primi passi. La croce, scandalo e follìa, non poteva servire come simbolo della nuova fede: eppure, paradossalmente, era il fulcro di tutto, la testimone della vittoria sulla morte proprio in quanto strumento di morte ch’era servita per una resurrezione. Il paradosso - scandalo e follìa poteva essere inteso solo all ‘interno del cristianesimo e fra i cristiani. I primi quattro secoli di vita simbolica del cristianesimo incentrata attorno ai grandi temi della morte e della resurrezione, dell’agape fraterna, della comunione tra il Cristo e i fedeli, - sono anche i secoli della necessità di allegorizzare la centralità d’un messaggio che non poteva essere trasmesso così com’era, allo stato puro. Allegoria è termine che, in greco, designa propriamente il “parlar d’altro”: indicare una verità attraverso un discorso di formalmente differente qualità.

 

La cultura simbolica del tempo delle catacombe (non tanto “cimiteri segreti” quanto, semmai, “cimiteri privati”) è pertanto una cultura di segni nascosti, dissimulati, trasformati. La croce vi è presente soltanto in forme camuffate: i primi cristiani adottarono desumendoli dalle tradizioni egizia, vicino-orientale e indo-persiana una quantità di simboli cruciformi che alludevano alla croce, irrappresentabile in quanto simbolo obbrobrioso e che troppo avrebbe esposto chi l’adottava alle accuse e alle calunnie dei persecutori.

 

Si cercarono quindi altri simboli in grado di alludere sia alla morte e alla resurrezione, sia alla Santa Cena: in grado, insomma, di rappresentare sinteticamente il Mistero del Cristo. Il simbolo forse più antico, più illustre e più a lungo utilizzato a riguardo fu il tralcio di vite, con o senza pampini o acini a seconda dei casi, insomma in molte varianti la più importante delle quali era senza dubbio l’albero dell’uva, la vite, raffigurato appunto nella sua pienezza. La vite come arbor crucis, albero della croce, il frutto della vite, - il grappolo d’uva come Cristo crocifisso che dà il suo sangue per la salute del mondo. Si deve tener costantemente presente, al riguardo, che le prime generazioni cristiane erano fondamentalmente costituite da convertiti l’origine dei quali era o ebraica, o variamente “pagana”.

 

Per gli ebrei, un tralcio di vite enorme, portato a spalla, richiamava un famoso passo biblico in cui si descrivono le ricchezze della Terra Promessa (Numeri 13,23). Rassicurante per i cristiani che provenivano e circumcisione e che in tale simbolo potevano riconoscere la continuità tra Vecchio e Nuovo Testamento, la vite richiamava le parole di Gesù che presenta se stesso come autentica vite (Ego sum vitis vera) e i fedeli come autentici tralci, sicuri dall’esser bruciati al pari di sarmenti solo finché restano aderenti all’albero, parte di esso (Giovanni, 15,1-8).

 

Ma per i cristiani che provenivano dal paganesimo, la vite e l’uva rimandavano al dio morto-e-risorto della tradizione misterica, a Dioniso. Ancora il sacrificio connesso col vino, ancora la morte e la resurrezione. Il Cristo era venuto a compiere tutte le tradizioni, era la pienezza di ogni linguaggio sacro. In questo modo, si fondava una certezza nuova non sulle rovine, ma sulle basi vive e feconde delle certezze antiche. L’omologazione del vino e del sangue, centrale nell’istituzione del sacramento cristiano, non ha nulla di ebraico. Il confronto tra vino e sangue includente un rapporto di omologazione tra il Cristo che offre il Suo sangue e i fedeli che lo assumono è comune: lo attesta ad esempio, con grande chiarezza, Cirillo di Gerusalemme. Il IV concilio lateranense, nel 1215, si è espresso con decisione sulla transubstanziazione: dopo la consacrazione, le specie del pane e del vino si trasformano in quelle del Corpo e del Sangue di Gesù.