Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

Sul dorso di un'oca

Transitare nel Labirinto

 

di Giuseppe M. S. Ierace

 

In quanto pellegrino dell’essere, ogni uomo percorre un suo personale itinerario, sia pur con svariate possibilità di fermate e rallentamenti causati da imprevisti impedimenti, cadute rovinose dalle quali rialzarsi a fatica, e persino inutili giri a vuoto. Metafora di tale viaggio può essere considerato il Gioco dell’oca, “ritrovato”, o reinventato, nelle corti europee del XVI secolo [in particolare la spagnola di Felipe II (1527-1598), ma ancor più probabilmente quella medicea, dal cardinale Ferdinando (1549-1609), o forse proprio dal fratello di quest’ultimo, il granduca Francesco I (1541-1587), quindi ben prima della versione iberica], a partire dalla più antica consuetudine combinatoria, in riferimento al lancio dei dadi, per come farebbe supporre il “De ludo aleae” (1520) di Gerolamo Cardano (1501-1576).

 

Palamede

 

Sulla tabella, con la scansione pluri-partita delle varie caselle, verrebbe ricomposta la rappresentazione schematica di uno scontro cosmico tra luce e tenebre, che tutti i giochi da tavola riproporrebbero. Pertanto la loro ideazione, secondo Filostrato (Eroico, XXXIII, 2), sarebbe servita a intrattenere in modo esoterico-didascalico quei soldati rimasti inoperosi in Aulide, prima di salpare alla volta di Troia.

 

Molti autori (tra i quali Alkidámas, Gorgia e i redattori del lessico Suida) attribuiscono a Palamede sia l'introduzione presso i Greci delle lettere (i cui caratteri gli sarebbero stati suggeriti dalle posizioni assunte dalle gru in volo o a terra, tipo le doppie θ, ξ, φ e χ), come dei numeri, del calendario, dei pesi e delle misure, sia l'invenzione dei dadi, e di un gioco da tavola, chiamato πεσσοι (pessoi), che sembrerebbe stato assai simile a dama o scacchi (Sofocle fr. 438; Gorgia, 82 B 11a, 30), oppure al backgammon (o τάβλη, in greco, e tavla, in turco), a sua volta assimilabile al Senet (o Senat) dell’Egitto predinastico.

 

Mehen

 

Il tavoliere di “mhn” (o serpente arrotolato), rinvenuto nella tomba di Hesy, a Saqqara, che risalirebbe al periodo iniziale della III Dinastia (circa 2868-2613 a. C.), sembra sia impostato su alcune Formule (“per uscire al giorno”) del Libro dei Morti. Da esso sarebbero potute derivare le successive versioni  praticate in Mauritania (Sig o Sik) e in Sudan dai Beggara (“gioco della Iena”).

 

Il serpente avvoltolato (Mehen) su se stesso a formare una spirale, rappresenta un’astrazione del tempo e dello spazio, e dell’intero universo che mai si ripete nella sua dinamica progressione, più complessa ed evolutiva di quanto possa venire codificato nel sistema chiuso e immoto del cerchio.

 

Il disco di Faistós

 

Ben più forte rimane la suggestione del nome stesso dell’eroe euboico, “abile con la palma della mano”, per il richiamo a un’estremità di arto dalle dita congiunte, come da una membrana, a mo’ di pes anserinus, in quanto allegoria di destrezza, ma anche di prodezza e astuzia. La sua invenzione potrebbe essere stata analoga a quel disco di terracotta d’età minoica (1700 a.C.), ritrovato, nel 1908, sulla costa meridionale dell’isola di Creta, nei pressi di Haghia Triada, a Faistós, da Luigi Pernier (1874-1937). Del diametro di ca. 16 centimetri, contiene ben 241 simboli (dei quali 45 unici, e nove originali hapax legomenon, raggruppati in 61 “caselle”, leggibili come “parole”), impressi a stampo, quando l'argilla era ancora fresca, su di uno spessore di  ca. altrettanti 16 millimetri, e disposti, su entrambe le facce, in una sequenza a spirale e in senso orario centripeto. (figura 1 il disco di Faistós)

 

I glifi che decorano il disco, anche se non  identici, sono simili ai 15 riconoscibili sull'Ascia di Arkalochori, e sono confrontabili sia con i caratteri della Lineare A sia con i geroglifici anatolici. Suggestiva sembra l’interpretazione come percorso, forse calendariale, in quanto vi appare una figura umana intenta a camminare, una in piedi con le braccia legate (“prigioniero”), uccelli in volo (simili a oche, cigni e gru), altri animali, fiori e strumenti vari.

 

“Reversible Goose”

 

Il "Reversible Chess and Goose Game Board”, conservato in The Metropolitan Museum of Art (New York)- Pfeiffer Fund, delle dimensioni di circa 43X42 cm, viene fatto risalire alla prima metà del XVI secolo e considerato d’origine italiana, sebbene in legno di teck, incastonato d'avorio, di pietre colorate, e di legno dipinto, e con un decoro vegetale ad arabeschi di gusto orientaleggiante, sottolineato da piccoli ailerons e rinceaux incastonati, a circondare il tavoliere a due facce. Piuttosto arcaici i numeri, di tipo europeo, ben visibili nei piccoli cartigli dentellati sopra ogni casella, in specie il 5 (a grafia serpentiforme, a mo’ di lettera S o J) e il 7 (piegato a destra); in particolare, la cifra (virata sul piano di quasi 90°) di un  4, in forma di nodo, sarebbe paleograficamente stata abbandonata proprio in quel periodo (figura 2: particolare del “Reversible Chess and Goose Game Board” del  Pfeiffer Fund. The Metropolitan Museum of Art, New York).

 

Tutti i volatili raffigurati, che sembrano più simili a colombidi che ad anatre, sono rivolti verso sinistra, guardando quindi in senso contrario alla spirale antioraria descritta dalla teoria delle suddivisioni in cellette. Con l’esclusione del Ponte (in posizione 6) e dell'Albergo (al 19), tutti gli altri simboli occupano le loro classiche postazioni, anche se sotto il numero 52, come a volte capita, si trova una “barca”, o galea, invece della prigione, “galera”, a quella etimologicamente collegata.

 

§

 

“Jacta alea esto” ["νερρίφθωκύβος" (anerriphtho kybos)]

 

 “Un’immagine, una metafora poetica, con l’alone di indeterminatezza semantica che le accompagna, - commenta  Roberta Borsani (“Sul dorso di un’oca”, Moretti & Vitali, Bergamo 2015) - sono più adatte a rischiarare ciò che non può essere logicamente piegato a delle cause determinate”.

 

Le caselle in cui la sorte, letteralmente ed etimologicamente “aleatoria”, ci costringe, sono allegorie del tragitto da compiere, simboli dei passi da effettuare, non sempre in base a scelte oculate e volontarie, ma per lo più definite da forze che in parte ci sfuggono, anche quando largamente compromesse da desideri o, ricerca di piacere e successo, oppure da timori e afflizioni.

 

La dimensione del rischio è analoga a quelle “situazioni-limite” di cui parlava il filosofo e psichiatra tedesco Karl Theodor Jaspers (1883-1969).

 

Circostanze come quelle d’essere sempre in una condizione, di non poter vivere senza lotta o dolore, di dover assumere inevitabilmente la propria colpa, di dover morire, sono situazioni-limite… Sono come un muro contro il quale urtiamo e naufraghiamo. Non possiamo operare in esse alcun mutamento, ma dobbiamo limitarci a considerarle con estrema chiarezza, senza poterle giustificare o spiegare in base a qualcosa. Esse sussistono con l’esserci stesso” (“Existenzerhellung”, 1932).

 

§

 

Le segrete valenze simboliche di quello che potrebbe superficialmente venire catalogato quale noto passatempo infantile affondano le loro radici in un passato più remoto di quanto si possa immaginare, in quanto i termini fondamentali dell’esistenza vi erano rispecchiati in valenze emblematiche ricche di connotazioni metafisiche che all’immaginazione creativa attribuivano un alone di sacralità.

 

Soltanto degli iniziati possono comprendere il linguaggio degli uccelli, come gli anatidi, animali soprannaturali, in particolare per i Germani, a cui era sacra per eccellenza giusto l’Oca. La divinità di questa, alla pari di quella del Cigno, era frequente pure nelle mitologie non indoeuropee, come l’ugrofinnica, da cui sarebbe passata ai celti. Dell’uno, sul piano devozionale, venne maggiormente accettata l’immagine pure in ambito cristiano, mentre l’altra avrebbe subito la medievale demonizzazione comune agli altri retaggi del paganesimo, anche se in una legenda renana l’oca marcia insieme con i pellegrini verso la Terrasanta e, nelle Cronache della Pistoia quattrocentesca di Luca Dominici (1363-1410), in onore della madonna d’agosto si organizzavano vere e proprie processioni di anatidi da cortile.

 

Chaturanga

 

Nel suo percorso a spirale, lo schema più diffuso, che però può anche assumere forma circolare, pur sempre ripartito in un dato numero di caselle (63), per certi aspetti, richiama la griglia di una qualche variante degli scacchi, tipo gli indiani Ashtāpada e Dasapada, in riferimento al numero, rispettivamente otto o dieci, di quadrati in cui è segmentata la tavola su cui si svolge. Mentre, in Gujarat, il Chomal Ishto (o Eshto) dispone invece un modello a base cinque.

 

Il Chaturanga che si sviluppa sopra l’Ashtāpada è un antico gioco indiano di strategia, considerato quale comune antenato di vari altri passatempi da tavolo, dallo Shogi al MakrukXiangqi o Janggi, sino al sassanide Shatranj.

 

In glottologia, Chaturanga è un termine composito, definito in sanscrito bahuvrihi (“molto riso”, equivalente quindi a ricchezza), che in fondo però vuol dire "avere quattro parti" (o arti). Ma che nel linguaggio della poesia epica ha assunto il significato di "esercito", per via di una peculiare formazione in battaglia, presente nel poema Mahabharata, strutturata nelle quattro divisioni di un esercito, e cioè fanteria (Padhata), cavalleria (Ashwa), carri (Ratha) ed elefanti (Gaja).

 

Un elefante, un carro, tre cavalli e cinque soldati formano una Patti; tre Patti un Sena-Mukha; tre Sena-Mukhas una Gulma; tre Gulmas un Gana; tre Ganas un Vahini; tre Vahini un Pruthana; tre Pruthanas un Chamu; tre Chamus un Anikini; e infine dieci Anikinis costituiscono un Akshauhini. Nella guerra del Kurukshetra, le dimensioni dell'esercito Pandava erano di almeno 7 akshauhinis, e quelle degli altri discendenti di Kuru, genericamente Kaurava, di ben 11.

 

Sul tabellone Ashtāpada, a volte, si ritrovano delle tradizionali marcature speciali, che non riguardano strettamente lo svolgimento del gioco del Chaturanga e che lo storico Harold James Ruthven Murray (1868-1955) ha ipotizzato siano stati funzionali ad altri antichi svaghi, forse simili a Chowka bhara, in cui si sarebbero potuti impiegare dei dadi e nei quali quei segni avrebbero potuto assumere un loro precipuo significato. In questo sistema, a base cinque, alla componente strategica, che consente al giocatore di decidere in che senso muovere il pedone, s’affianca l’elemento della fortuna, introdotto dal lancio di quattro dadi speciali rappresentati  da conchiglie cipree (Cypraea tigris), tanto comuni in quasi tutto l'indopacifico.

 

Pachisi

 

Un primo riferimento a un antico gioco da tavolo indiano sarebbe attestato nel Vasavadatta di Subandhu, ministro alla corte di Kumaragupta I (414-455) e del di lui figlio Skandagupta (455-467). “Il tempo delle piogge ha giocato la sua partita con le rane pezzate [nayadyutair] di colore giallo e verde, quasi screziate da lacca resinosa, che saltano in abito bicolore sulle caselle di un campo nero”. Il paragone con la livrea degli anfibi non avrebbe comunque avuto attinenza con un’eventuale mappatura bipartita della scacchiera.

 

Ad altri animali, rettili (Serpenti), e a “Scale” si ispira la forma moderna del gioco “Snakes and Ladders” reinventato nell'Inghilterra vittoriana da John Jaques II (1823-1898), rampollo della celebre casa editrice di giochi John Jaques and Son of London, [produttrice di Shove ha'penny, che ebbe l’esclusiva di Tiddledy-WinksHappy Families (le cui carte sarebbero state disegnate dall’umorista Sir John Tenniel), nonché degli standard dei pezzi che, in onore dello scacchista Howard Staunton, vennero designati “Staunton chess set” (1849), anche se disegnati da Nathaniel Cooke, e che avrebbe poi introdotto in Inghilterra il croquet e l’antenato del moderno tennis da tavola, o ping pong ("Gossima")]. Si trattava, insomma, di un gran conoscitore di divertissements esotici e tanto profondo indagatore di questi da aver tratto l'idea dell’altro suo grande successo, il Ludo, dallo spasso nazionale di quel subcontinente, caratterizzato dal modello di croce simmetrica, il Pachisi (o venticinque, per via del massimo punteggio che si può raggiungere con il lancio di sei o sette conchiglie).

 

Gyan chaupad

 

Moksha (Mosksha) Patamu, o Gyan chaupad, si mostra apertamente una sorta di ricreazione psico-pedagogica, per via della finalità dichiaratamente etico-religiosa, utilizzata, a scopi meditativi, quasi fosse un rosario, o meglio un Japamālā, e riguardando nello specifico le possibilità di ottenere il Nirvana, con modalità progressive, e rapidamente, attraverso la pratica delle virtù (punya), oppure viceversa la sventura della perdita e retrocessione, nel ricadere nei vizi (pap). Questo gioco indiano fornisce quindi indicazioni e risposte morali molto concrete: i sentieri delle virtù, simbolicamente rappresentati come scale (8), elencano fede, affidabilità, generosità, ecc. in grado di abbreviare il percorso verso la buddhistica estinzione, ovvero “liberazione dal desiderio”; mentre le strade del vizio, simbolicamente lastricate da voraci serpenti (12), che trattengono nel karma e riportano indietro, predispongono a vanità, disobbedienza, volgarità, e quindi a ulteriore sofferenza in una “rinascita”.

 

Molto simile al Moksha Patamu, un gioco ritrovato nella tomba di Reniseneb, risalente all’epoca del regno di Amenemhet IV (XII dinastia dell’antico Egitto), e diffuso anche in Persia e Palestina, comunemente noto oggi come “Cani e Sciacalli”.

 

La croce e la cifra del 4

 

Simile al Pachisi indiano, il classico supporto ludico coreano Nyout (Yut), in cui la croce, inscritta in un cerchio, lo divide nelle canoniche quattro parti uguali [anche Chaturanga vuol dire "avere quattro parti"!]. Un disegno mistico che rimanda al mandala, dove il sole e la terra si coniugano, come nella croce celtica o in quelle ortodosse, quale l’etiope o la copta, derivata dall’ansata (Ankh) egizia.

 

L’etnografo americano Stewart Culin (1858-1929) postulava una genesi divinatoria per gli attuali giochi da tavolo, secondo una "classification of all things according to the Four Directions", che li facesse rientrare in una modalità di procedura magico-rituale. L’esempio citato dell’«account of the Zuñi War Gods» collega infatti esplicitamente i Quattro angoli del mondo con un sistema oracolare dalle chiare valenze religiose; una tesi valida sia per il coreano Nyout (Yut) sia per lo Zohn Ahl dei Kiowa, quali sopravvivenze di pratiche cerimoniali più antiche, alla stessa stregua del vaticinio indù Lila e del Libro dei Mutamenti (I Ching) del celeste impero.

 

Numerologia

 

Del resto, pure il passatempo cinese Shing Kunt t'o ("la promozione dei mandarini"), si dispiega a spirale su di un tabellone costituito da caselle numerate fino a 99. Mentre inferiore è il novero delle postazioni nella versione occidentale del Gioco dell’Oca, che asseconda il parere alchemico ("tanto minore il loro numero, tanto più dura la lotta, tanto più tarda la vittoria"), espresso da Eirenaeus Philalethes  a proposito delle Aquile: "l'operazione è compiuta in modo eccellente dal numero 7 e dal numero 9", il cui prodotto è appunto un 63. Eppure, contando anche il centro, otteniamo lo stesso risultato di quel fatidico 64 corrispondente anche agli esagrammi dell' I-Ching, alla scacchiera (8x8), e che sostanzialmente torna a rappresentare l'unità [6+4=10=(non “contando” lo zero) 1].

 

In due caselle (la 26 e la 53), sono segnalate le due possibilità di ottenere il risultato 9 con le diverse combinazioni che le forniscono mediante due dadi (3+6 e 4+5). Mentre la disposizione delle oche nel tragitto, circolare, ellittico od ovoidale che sia, evidenzia ancora una volta la rilevanza nell’intera struttura del settenario, essendo, infatti, sempre alternate tra loro con modalità: 4 caselle-oca-3 caselle-oca [5, 9, 14, 18, 23, 27, 32, 36, 41, 45, 50, 54, 59=XIII], come avviene nei cicli settenari e novenari che contrassegnano la cronobiologia degli anni climaterici (dalla pubertà alla menopausa, terza e quarta età), fondamentali multipli critici nel corso della vita umana.

 

Progressivamente a spirale attorno al Mercurio filosofico, in  rappresentanza de "l'uccello di Ermete, che ora si chiama oca, ora fagiano, ora questo, ora quello" [ma sempre a ribadire quel XIII (la Morte)], 21 caselle variamente illustrate da figure che ripropongono gli arcani maggiori dei Tarocchi, o le 22 lettere dell'alfabeto ebraico (questa volta però “contando” lo zero del centro tavola).

 

La mistica ebraica della Qabbalah ci spinge a ricorrere alla sapienza dei dadi, sia per raggiungere l’agognato “giardino” (paradiso) dell’Oca sia per ricevere quella chiave che porta al magico numero non visibile, il 64 cioè dell’unità assoluta: lo zero del centro tavola [6+4+10=1+0=1], nonché principio invisibile, e Aleph d’ogni cosa. Quell’Oca sacra che passeggia beata nel recinto dell’Eden, a proporre l’ultimo traguardo della vita, corrisponde alla prima lama dei tarocchi, il Bagatto, similitudine dell’azione che condurrà alla meta.

 

Egli non è il cielo né il Sole né la Luna, né il Paradiso eterno./ Egli non è le stelle né gli angeli, né qualunque altra cosa, manifesta o nascosta./ Egli non è né il cielo né l’inferno, né un re né uno schiavo./ I due mondi non sono altro che Lui, tuttavia Egli trascende ogni comprensione./ Come potrebbe la mente raggiungerLo?/ Ahimè, Egli non è né manifesto né nascosto… È solo Lui, l’Uno,/ che assume le forme della molteplicità." [Swami Rama Tirtha (1873-1906)].

 

§

 

La zampa d'oca, o ank runico (l’Elhaz dell’antico Fuþark)?

 

Il tavoliere illustrato dagli anatidi sintetizza una mappa allusiva di quel viaggio spirituale da seguire come trasfigurazione dell’esistenza da parte di chi attraversa, tra alterne vicende, la propria vita fino ad annullarsi, dopo la morte (58; XIII=5+8), con l’ultimo volo della Grande Oca finale, in seno alla Magna Mater, il principio invisibile dello zero nel pieno centro del ripiano [6+4=10=1 nello 0].

 

Nella fiaba “Den grimme ælling”, inclusa nei “Nye Eventyr” (1844) di Hans Christian Andersen (1805-1875), il pennuto impersona il pellegrino alla ricerca di se stesso. Un percorso iniziatico volto al ricongiungimento con l'origine, metaforicamente ricollegabile al cammino di San Giacomo di Campostela, la cui merelle (Pecten jacobaeus) si configura come zampa d'oca (pata de la oca), o tridente di Poseidone. Adottato, sulla scia degli antichi popoli gaelici della Spagna settentrionale, un po’ da tutti i “costruttori” delle cattedrali medioevali quale simbolo di creatività e sapienza superiore, per cui l’appellativo medesimo di “oca”, attribuito ai maestri anziani, ne sottolineava  rispettosamente il ruolo di guida divina.

 

Jackin

 

Una leggenda, fatta propria dalle medioevali corporazioni di mestiere,  narrava di un certo Maestro Giacomo, tagliatore di pietre, nativo dei Pirenei, tanto celebrato nella propria arte da venire consultato dal famoso Hiram di Tiro per completare l’edificazione del Tempio di Salomone, e da essere richiesto espressamente d’innalzare la colonna a destra dell’entrata, che da lui avrebbe preso il nome “Jackin”, con il significato di “Dio l’ha fermata”, sottintendendo  l’elemento Aria, il Vento, cioè la stabilità (contrapposta a “Bohaz”, la potenza, l’elemento Fuoco), anche se in lingua basca si limiterebbe a valere semplicemente per saggezza (jakituria). La radice jac- sembra però più comune al taglio e all’intaglio (iaculum), come all’atto di gettare (as-lea) i dadi (“jacta alea esto”), per cui estrarre la sorte (alea) si troverebbe in implicita analogia con la radice ac- (andare), la quale richiama pure il movimento di sbattere le ali (quindi agito, alito…), riconfermando ancora una volta l’elemento Aria.

 

I “costruttori” sul cammino di Compostela si trovavano dunque riuniti in una confraternita denominata “Figli di Maestro Giacomo”, in seno alla quale si continuavano a seguire delle antiche tradizioni iniziatiche non proprio canonicamente cristiane. La loro simbologia, riallacciandosi alla supremazia dei popoli navigatori dell’antichità, quali furono gli abitanti dell’iberica Tartesso (TarsisTurdetania),  Fenici, Liguri (e Baschi), a cui era stato conferito il titolo di “popoli dell’Oca”, continuava a riproporre  il tridente di Poseidone, o piede palmato, in segno di dominio dello spirito sulla materia. E difatti, i cosiddetti Etruschi-Villanoviani, o Tirreni (a loro volta, “costruttori di torri”), perpetuando un’ancor più remota usanza degli Atlantidi, sagomavano le prue delle loro navi in forma di testa e collo d’oca, uccello venerato come sacro in particolare dai Liguri.

 

Con la cristianizzazione definitiva del “saggio-lapicida”, Jackin, in San Giacomo (Iacobus, in latino), i membri della confraternita,  “Figli” di Mastro Giacomo, oppure  Jars (paperi, in francese), assunsero quale emblema la conchiglia con la quale i pellegrini ornavano il loro mantello. Nonostante la modifica sostanziale, si lasciava comunque intatto il nome, e, nel rispetto della tradizione più antica, la strada per Compostela, in epoca pagana chiamata “via delle Oche Selvagge”, continuò a essere percorsa da emancipati Jars, liberi scalpellini (e “franchi” muratori iniziati agli architettonici segreti). Questa memoria persiste in numerosi toponimi, come nella denominazione di alcune vie di paesi sorti sul celeberrimo “Camino”: Calle de los Cisnes ViajerosCalle de las Ocas Salvajes

 

Sulla mappa del tragitto jacopeo, l’Oca si ripresenta nella sua duplice forma linguistica, la preindoeuropea “Auch”, mutatasi, attraverso il latino Auca (greco khén), nel vocabolo odierno Oca (Auche, Oja, Oie), e la protoindoeuropea Ghans, da cui il sanscrito “Hamsa”, poi latino Anser (Ansar, Anso, Ganso, Gans, Gas, Gus, Géiss, Jars). Ed ecco,  sotto il passo pirenaico Somport, il paese di Ansò, da dove inizia il “Cammino” francese; a oriente di Burgos, Villafranca Montes de Oca, dove i Templari possedevano un’importante precettorìa; a occidente, invece Castrojeriz, che probabilmente più  che Castrum Sigerici (Castroxeris), un tempo, sarà potuto essere Castro-Jars; a sud di Astorga, nella regione del Bierzo, El Ganso; presso il valico de la Oca, il paese di Oca, per dove si discende a Compostela; presso la ria di Noya, San Sebastiano de Oca… A Puente la Reina, la chiesa di Santa Maria de las Huertas conserva un crocefisso gotico, templare, sul quale il Messia si trova inchiodato su una rozza croce arborea a forma di tridente, dove il simbolo cristiano si sovrappone chiaramente al segno runico della zampa palmata, o Algiz (alce), Elhaz (proto-germanico), o Eolh (nel Fuþorc anglosassone e frisone).

 

Lapicidi, Jars, e iniziati alla fabbricazione in genere, sembra si recassero in pellegrinaggio fino alle coste dell’Atlantico per osservare e provare a decifrare i sacri segni risalenti a tempi preistorici lasciati scalfiti sulle rocce delle Rías Baixas. In Galizia, questi celebri petroglifi [dal greco ‘petros’ (pietra) e ‘glyphein’ (intagliare)] avrebbero forse riprodotto un primitivo, misterioso alfabeto sacro ripreso nelle incisioni tracciate dapprima sulle pareti dei templi pagani e successivamente nel medioevo sulle mura dei vari monasteri e di imponenti cattedrali. Nell'area della provincia di Pontevedra se ne possono contare a centinaia, ma il motivo più ricorrente sarebbe rappresentato dal labirinto e dalle coppelle, costituite da piccoli fori artificiali prodotti nella roccia, a sezione semisferica e pianta circolare, la cosiddetta ‘coviña’, accompagnata da graffiti circolari e di cervi, in presumibile connessione con quella che nella mitologia celtica diverrà la divinità per eccellenza, Cernunnos. Per lo più, seguono anche incavi vulvari, altri intagli cruciformi, altari sacrificali, tombe a tumulo, menhir, dolmen, e i massi con coppelle verrebbero visionariamente interpretati quali preistoriche “acquasantiere”.

 

Pecten jacobaeus

 

Tali temi non erano destinati a esaurirsi in età Calcolitica, e la forma tipica di quelle presunte acquasantiere venne assunta dalla conchiglia di San Giacomo, pettine di mare o cappasanta, divenuta simbolo della materia prima dell'Arte, e contenitore per l'acqua benedetta, il nome dato dagli Alchimisti all'acqua mercuriale, poiché immagine dell'immacolata concezione, dal momento che fino al XVII secolo si supponeva fosse uno spirito a inseminare il mollusco per produrre le perle. Le due valve sono le Scritture (Vecchio e Nuovo Testamento), lo Spirito Santo feconda il mollusco che è Maria, la quale partorisce la perla del Logos, ovvero il Cristo.

 

Sulla strada di Compostela, “l'umile e comune conchiglia”, a ornamento del pètaso dei pellegrini, “s'è mutato in astro splendente, in aureola di luce. Materia pura di cui la stella ermetica consacra la perfezione: è adesso il nostro compost”!

 

Duplice metafora di itinerario enantiodromico, irto di difficoltà, in una vita di cui la mèta naturale è il “premio” capitale (XIII=58), e dopo, da defunti, rappresentazione delle divagazioni che le anime devono compiere per abbandonare definitivamente l’esistenza. Peregrinazione da esiliata in cerca della sua interiorità è il viaggio dell’anima che brama ricongiungersi alla propria natura spirituale. Il mondo di qua, doppione di quello celeste, è copia dell’altro, ultra terreno, come lo schema di gioco lo è della mappa di una cosmogenesi da ripercorrere ritualmente, come appunto in un emblematico labirinto.

 

§

 

Ogni postazione del tabellone Yut Nori (Yunnori) ha un proprio nome, il cui significato spesso rimane oscuro agli stessi giocatori coreani. Le stazioni esterne simboleggerebbero il cielo, quella interna la terra, e nell’insieme l'intero schema potrebbe essere interpretato come il riflesso della sfera celeste, per il conseguimento di quella simmetria universale, rispettata dagli elementi tradizionali del Taoismo. Al centro del cerchio cosmico, lo scrittore coreano del XVI secolo, Gim Munpyo, vi riconosceva la Stella Polare, circondata dalle ventotto costellazioni, come i pellegrini di Santiago parlano del loro cammino quale “Via lattea”.

 

Luoghi simbolo

 

Un quadrato suddiviso in sette righe e altrettante colonne compone la tavola dell’Ashta-kashte bengalese (a Hyderabad denominato Koli Kadam), la cui pista ciononostante appare abbastanza simile a quella circolare, o a spirale, del moderno Gioco dell’Oca occidentale, il quale avrebbe perso nel corso del tempo la formalità quadrata di griglia per elaborare una teoria processionale di caselle che si susseguono fino al traguardo. Le quattro postazioni esterne e la centrale dell’Ashta-kashte bengalese sono state sostituite da quelle caselle originarie “parlanti” con l’immagine dell’Oca disposte ordinatamente a scandire la numerazione del tavoliere quale indizio fortunato alternato a nefaste incombenze, tipo un significativo Ponte (6), una metaforica Locanda, od Osteria (19), un allusivo Pozzo (31), un tautologico Labirinto (42), un’allegorica Prigione, o Galera (52) e una simbolica Morte, o Teschio (58; XIII=5+8), il cui pericolo precede di poco il traguardo finale.

 

Il ponte – spiegava il bibliofilo Pierre Dietsch [l’editore d’arte d’origine alsaziana che ha perlustrato l’Europa per oltre 30 anni, allo scopo di raccogliere una delle più belle collezioni al mondo  (Palais du roi de Rome de Rambouillet)] - permette il passaggio da una riva all’altra, da uno stato dell’essere a uno stato più evoluto; l’osteria (o locanda) è il riposo, la pausa creativa che permette l’evoluzione a un nuovo livello; il pozzo è la sintesi dei tre elementi: acqua, terra, aria, è una strada vitale della comunicazione, è il simbolo di conoscenza; il labirinto simboleggia un sistema di difesa contro chi vuole violare l’intimità delle relazioni con il divino; la prigione simboleggia, il luogo della morte dell’uomo “vecchio” e la nascita dell’uomo “nuovo”; infine la morte, figlia della notte, sorella del sonno, possiede il potere di rigenerare”.

 

Immancabili luoghi simbolo della tradizione presepiale, la Locanda e il Pozzo; la Prigione, che richiama la Torre dell'Athanor e dei Tarocchi; il Ponte di San Giacomo, sul quale si affronta la Morte (XIII); così come la presenza del Labirinto nelle Cattedrali, giustificata in quanto parabola pratica della Grande Opera da compiere ultimando il percorso stesso dello schema proposto sulla tavola, costellano l’intero viaggio iniziatico di prove da superare, la cui ambigua valenza può essere equivocata a seconda della sollecitazione emotiva e del risultato a cui conducono.

 

L’Arte degli Auguri

 

Anche l'oca viene, a volte, vincolata a concezioni negative, altre volte riassume attributi più dichiaratamente positivi. Animale sacro per gli Egizi, nelle Metamorfosi di Ovidio, gradita offerta agli dei, venne rivestita, nel Rinascimento, di connotazioni augurali. Del resto, veniva considerata da sempre alla stregua di guida in grado di insegnare agli uomini il cammino della conoscenza con le modalità dell’ornitomanzia. Medium profetico anche nelle culture celtica e germanica, presso le quali condivide con il cigno il ruolo di simbolo dell’eterno femminino, immagine della materia materna, della Terra stessa, della Grande Madre e del soprannaturale da cui ha origine tutto; quindi, ancora animale psicopompo, messaggero dell’altro mondo, e degli inferi, la dimensione di Persefone-Proserpina, compagno di viaggio pure dei devoti nei pellegrinaggi verso i santuari.

 

L’Uovo d’Oca

 

Secondo Johann Jakob Bachofen (1815-1887), l’oca “indica l’acqua della profondità e dunque lo stesso regno della terra che ha assorbito umidità e di essa s’è impregnato”. Nei riti bacchici, orfico-dionisiaci, questo ruolo erotico si trova “attestato in modo ancora più inequivocabile dal momento che l’uovo stesso viene presentato come il punto focale dei Misteri, come il grande simbolo dell’iniziazione… In questa sfera l’uovo è la madre-materia, ciò che è dato in origine e dal cui caotico e oscuro grembo vede la luce la creazione. È appunto l‘oca a generarlo, ed è appunto Nemesi ad accoglierlo nel suo grembo. Il caos della materia primordiale diventa uovo. Nell’uovo l’oca annuncia, Nemesi rivela la sua maternità”.

 

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Il Cigno

 

Da un punto di vista filologico, quell’auca dell’antico spagnolo, e del catalano, corrisponderebbe a una sorta di forma lessicale intermedia, e ricostruita, di tardo diminutivo (avica) del latino avis, uccello piccolo, minuto, o “minore”. L’altro termine, latino classico, più antico e preciso, anser (hanser, quello proveniente dal sanscrito hamsa-, che vale anche per cigno), etimologicamente conserva l’arcaico retaggio indoeuropeo che apparenta gli anatidi [da ghans, l’antico slavo gasi, l’alto tedesco gans (plurale Gänse), l’inglese goose (singolare, geese plurale e persino una definizione a parte per l’oca maschio: gander ), l’irlandese geiss (che sta appunto per “cigno“), il latino anas per anatra e gli anseriformi ]. Una certa somiglianza, morfologica e di colore tra i due animali, entrambi candidi e dal collo ricurvo, come pure a livello simbolico, giustificherebbe qualche confusione e di tipo verbale e di natura mitologica. Lo stesso Zeus si tramuta in cigno per accoppiarsi con l’oca in cui s’era trasformata la ninfa Nemesi, onde farle deporre l’uovo da cui nacque Elena.

 

Oca e cigno sono dunque le due manifestazioni sessuali, rispettivamente sotto forma femminile e maschile, d’un’unica immagine trascendente dell’arcaica ciclicità del tempo. Ma, mentre il canto del cigno predice la fine, il verso dell’oca rappresenta l’origine e il suono primigenio della creazione. Nella mitologia egizia, Amon-Ra sorvolò le acque primordiali in forma d’oca per deporvi l’Uovo cosmico, annunciando questa nascita con il primo suono mai prodotto, un acuto e stridulo starnazzio. 

 

Nell’assimilazione al cigno, l’oca rappresenta l’origine artica, in quella all’Ibis, sacro agli Egizi e riferito a Toth, la divina conoscenza, mentre l’associazione alla provenienza dei bambini la accosterebbe alla cicogna. Uccello totemico dei Pelasgi (pelargi, cicogne, “che vivono nei campi”, pelin argo), i mitici discendenti degli scampati al cataclisma di Atlantide, e poi “costruttori” di torri (Tirreni), infaticabili girovaghi alla sempiterna ricerca di nuovi lidi e di ricomporre una volta ancora la primordiale patria andata irrimediabilmente perduta.

 

Nella favolistica [da Die Gänsemagd ad Hänsel und Gretel dei fratelliGrimm, Jacob Ludwig Karl (1785-1863)e Wilhelm Karl (1786-1859), per trascurare Die sechs Schwäne , o Das hässliche junge Entlein di Andersen ], questi uccelli si associano a donne sovrannaturali, manifestazioni della Grande Madre originaria, e di quest’ultima costituiscono delle vere e proprie epifanie, come pure dell’altro mondo, di una visione ciclica del tempo, della musica, della poesia, del suono, della parola e della lingua scritta, tant’è vero che, per Alfredo Cattabiani (1937-2003), l’oca sarebbe stata “chiamata anche la Madre dei Veda”.

 

Nell’annunciare l’inizio della nuova stagione, il ruolo allegorico del volatile si pone direttamente in rapporto alla rifondazione magica dell’intero cosmo. Così l’ascendere nella direzione dei punti cardinali divenne cerimonia di celebrazione dell’avvento di un nuovo Faraone e il geroglifico dell’Oca del Nilo (Alopochen aegyptiacus) funse da simbolo del “ka” reale, rappresentandone l’anima e assumendo il significato letterale di “figlio di re”.

 

Il passo dell’oca

 

Grande rappresentante dell’armonia, della scansione, dell’andatura ritmata, si riteneva che le più stanche venissero spinte dalle altre fino a essere portate davanti nelle prime file. Da qui, forse, trae spunto il passo cadenzato, detto dell’oca, adottato da Federico il Grande di Prussia per far marciare i suoi soldati durante le parate, quale ruolo sacrale di guida nel cammino individuale d’iniziazione.

 

Nella poesia di Walter Flex (1887-1917), “Wildgänse rauschen durch die Nacht”, assurge a emblema degli eserciti in marcia, come pure di quella gioventù che anela al ripristino di una libertà nella natura, anche se poi glifo dei Wandervogel fu più precisamente un Ardeide. Noti episodi storici ricordano il ruolo di guardiane del tempio della dea Giunone e di custodi della casa e della comunità; e in effetti, nel 387 a.C., le oche capitoline avvertirono nottetempo dell’incursione dei Galli Senoni al Campidoglio, proprio come declamava Flex “…durch die Nacht”.

 

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Al pari del maiale (...) un animale di cui nulla si butta. – spiega Donatino Domini - Dalle piume, alla carne, al fegato e alle zampe, tutto è utilizzabile”. E aggiunge: “Il D’Allemagne [Il paleografo e bibliofilo Henry-René d' Allemagne (1863-1950), storico di carte da gioco e giocattoli] ritiene perciò il connubio oca-gioco derivato dall’usanza dei giocatori di impiegare la vincita nell’acquisto di una grossa oca da imbandire in tavola”. (figura 3Il dilettevole gioco di loca, stampato a Venezia da Carlo Coriolani nel 1640).

 

L’intento, o meglio la celebrazione gastronomica, del gioco verrebbe infatti raffigurata al centro della tavola di Carlo Coriolani pubblicata a Venezia nel 1640. In Inghilterra, è d’uopo predisporla come pietanza per il giorno, il 29 settembre, dell’arcangelo Michele, il Grande Psicagogo della cristianità, ritenendo per scaramanzia, che chi ottempererà a questa tradizione non si verrà mai a trovare in difficoltà nell’eventuale remissione di debiti. Mentre era costume sei-settecentesco festeggiare l’inizio della stagione invernale mangiando un’oca a San Martino (11 novembre).  Nell’iconografia cristiana, il santo di Tours viene spesso raffigurato con ai piedi l’oca rivelatrice del nascondiglio scelto, onde rifuggire dall’incarico episcopale al quale era stato eletto per acclamazione.

 

Un coup de dés jamais n'abolira le hasard” (1897) scrisse Stéphane Mallarmé (1842-1898). La loro forma cubica riconferma la solidità del reale, rappresenta un invito a riportare per terra i piedi, che siano palmati o meno. Dalla sfera del sogno impossibile, nella deposizione dei dadi come fossero uova di oca, dovrà fuoriuscire una progettualità praticabile!

 

La fresca gratuità del caso incarna metaforicamente tutta la poesia della creazione iniziale. E, nella disposizione a spirale, passato e futuro si compenetrano, mentre, in un medesimo atto, il cangiante polo sfugge alternativamente sia alla dispersione finale sia a una regressione verso le origini.

 

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